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Questo è il capitolo della tesi di laurea di EUGENIO MARINO che riguarda Fabrizio De Andrè.

N.B. Chiunque volesse utilizzare questa tesi anche in parte deve ottenere il permesso esplicito dell'autore.



Come abbiamo visto, i genovesi erano coloro che cantavano l'altra faccia degli anni del dopoguerra e del boom, quelli che si ribellavano, che soffrivano. Con loro, fino alla fine degli anni Settanta, va delineandosi nella musica italiana un forte movimento generazionale che contrappone i padri, con i valori di cui sono portatori, ai figli, che li "uccidono" in continuazione. Questi cantautori spingono fortemente sull'acceleratore dell'insoddisfazione giovanile proletaria e sottoproletaria facendone una pratica di eversione culturale, sociale e sessuale contrapposta a quella delle generazioni precedenti. Siamo alla vigilia del '68. Vengono sottoposti a duro giudizio i valori fondamentali del passato: famiglia, scuola, istituzioni, religione ecc, e i rappresentanti di questi valori, cioè i "padri", si trincerano immediatamente nel loro mondo, osteggiando i figli e indicando subito i cantautori (questo è l'ambito che ci interessa) come "cattivi maestri". Tra questi, naturalmente, non poteva mancare Fabrizio De André, per il quale va fatto uno studio particolare, in quanto, formatosi tra i cantautori genovesi, ha un impianto formale più mosso: al "tu" o a qualche luogo e oggetto idealizzato, soli interlocutori dei primi "genovesi", aggiunge il "noi", la forma poetica della ballata; al senso di ribellione presente negli altri cantautori, ma legato a un determinato periodo, aggiunge una poesia anarchica  che è metafora dei soprusi ciclici della storia, che si ripetono da millenni  e sempre a sfavore dei deboli. Ama, come Guccini e De Gregori, le metafore, le allusioni e le parabole. Introduce

 

nella canzone il mestiere della poesia e il concetto della vita come letteratura, come ripetizione, come "tango triste". Se Tenco e Paoli scrivono velocemente, a caldo, su fogli da bar, facendosi vanto di questa velocità di elaborazione poetica, De André articola le sue canzoni come poemi, dove si avverte il magistero della scrittura[1].

 

 

 Come lui, Guccini ama immaginare il cantautore più che come poeta come artigiano della parola, che passa molto tempo a lavorare e modellare i versi come un fabbro che batte il ferro[2].

 Fabrizio De André è quello che meglio ha impersonato il ruolo di "cattivo maestro", quello che ha saputo essere interlocutore nello scontro politico, sociale e culturale. È quello che ha incarnato, in un periodo di forti contrasti, crisi e attacchi alla borghesia, la figura dell'intellettuale critico (ossia, in crisi)[3], scegliendosi una collocazione da "anarchico", cioè eccentrico sia alla borghesia, dalla quale proveniva per origine, sia al proletariato, al quale non apparteneva. Tutto ciò De André lo ha fatto con un «approccio sofferto alla realtà, lacerato da dubbi e angosce che si sublimano talora in versi, canzoni, idee e battute»[4] di grande spessore culturale, ricche di echi letterari. E' possibile sentire nelle sue canzoni, come in quelle di Guccini o De Gregori, echi di letture dei più diversi poeti, romanzieri, filosofi o saggisti di tutti i tempi e di tutte le "etichette". De André, legge tutto ciò che lo appassiona, senza fare di queste letture uno studio sistematico e "scientifico", ma uno studio libero, eccentrico, fantasioso e "artistico", nel senso che rielabora tutto ciò che legge, lo modifica, lo piega fino a farlo entrare nella propria visione del mondo: una visione che non è assoluta, ma critica, e critica soprattutto verso dogmi e pregiudizi, poteri forti, verso "la maggioranza"[5] e tutto ciò che è sua espressione, quindi anche verso le "regole", ingiuste pure queste in quanto espressione diretta di chi le ha stabilite non di chi vi deve obbedire. Nel corso della presente dissertazione cercherò di rintracciare nelle canzoni di De André gli echi di opere come i Vangeli apocrifi, L'antologia di Spoon River, o la presenza di autori come Villon, Lee Masters, Angiolieri, Mutis, ma anche di minori o sconosciuti alla cultura ufficiale. Lo stesso farò, per quel che riguarda gli autori ai quali hanno attinto a loro volta, con Guccini e De Gregori.

 

1.5 Cecco Angiolieri (S'i' fosse foco) e il De André della protesta.

 

Inizierò il mio lavoro proprio dalla canzone in cui è più esplicito il riferimento letterario: S'i' fosse foco, del 1968. Qui l'opera di riferimento è l'omonimo sonetto di Cecco Angiolieri, ripreso in toto da De André e musicato. Il testo è quello che tutti conosciamo:

 

S'i' fosse foco arderei ‘l mondo;

s'i' fosse vento, lo tempesterei;

s'i' fosse acqua, i' l'annegherei;

s'i' fosse Dio mandereil 'en profondo;

 

s'i' fosse Papa, sare' allor giocondo;

ché tutti cristiani imbrigherei;

s'i' fosse ‘mperator, sa' che farei?

a tutti mozzerei lo capo a tondo.

 

S'i' fosse morte, andarei da mio padre;

s'i' fosse vita, fuggirei da lui:

similmente faria da mi' madre.

 

S'i' fosse Cecco com’i’ sono e fui,

torrei le donne giovani e leggiadre:

e vecchie e laide lassarei altrui[6].

 

De André accompagna il canto di Cecco Angiolieri con una musica di tipo medievale, adatta al testo, ma il periodo in cui incide è il '68. Siamo nel vivo della "rivolta studentesca": i giovani occupano le Università, criticano i governi, osteggiano le guerre, girano con i capelli e la barba lunghi, sbeffeggiano i valori delle generazioni che li hanno preceduti, uccidono metaforicamente i padri e le madri e ciò che essi rappresentano, vogliono un mondo completamente diverso da quello in cui sono cresciuti. Nessuno dei valori dei "padri" è tenuto in considerazione, nessuna istituzione è salva: né la Chiesa, né lo Stato, né la famiglia. In questo clima diventa di grande attualità il vecchio canto di Cecco che si radicalizza nei moti di protesta giovanili  e ne diventa quasi l'inno: S'i' fosse Papa […] tutti i Cristiani imbrigherei,/ s'i' fosse imperator […] a tutti mozzerei lo capo a tondo./ S'i' fosse morte andarei da mio padre./ […] Similmente faria da mia madre.

Nell'intento del poeta senese la critica per lungo tempo ha intravisto la protesta anticortese e la ribellione ad un sistema, la rivendicazione di una condotta libertina, l'intento di sostituire ai vecchi, nuovi modelli e nuovi valori e l'eterna lotta tra padri e figli (Cecco ha un profondo odio per l’avarizia del padre, motivo del voltafaccia di Becchina, la donna amata,  popolana corrotta e venale che prima si mostra arrendevole e poi, finito il tempo delle vacche grasse, gli si rivolta contro). Ma mai come negli anni '60 del nostro secolo questa lotta si era radicalizzata così fortemente, mai un canto come S'i' fosse foco aveva fatto tanta presa tra i lettori. Diventa per gli studenti il canto di rivolta verso la nuova società di massa e l'illusione del boom economico, per De André la rivendicazione ad affermare un modo di essere e dei valori (o non-valori): quelli di un universo fatto di prostitute, ladri, blasfemi, morti suicidi, giocatori d'azzardo e frequentatori di squallidi locali, che è poi l’universo dei suoi personaggi. Quei personaggi che si rifiutano di seguire i valori e le "leggi del branco"[7], che li soffoca, e che li fa vittime e non colpevoli. Quello stesso ambiente, «la donna, la taverna e 'l dado», che Cecco aveva già celebrato. Ma, anche se nel testo c’è l’uso della prima persona, in effetti né Cecco, né De André si riconoscono nel personaggio, ma per entrambi quel testo dà voce, attraverso il loro sentire, ai personaggi che affollano la  loro poetica. Cecco, nonostante  abbia condotto anche vita disordinata e sregolata, non è un brutale descrittore della propria abiezione morale incupito dalla consapevolezza del suo stato misero, nel quale poter individuare i sentimenti più puri della vita, ma un accorto letterato che prende a piene mani dalla tradizione letteraria per descrivere un determinato mondo della sua Siena al quale però egli non appartiene (se non come personaggio creato). Inoltre Cecco, da poeta, deforma e amplifica i fatti, mettendoci, naturalmente, anche la sua personale rabbia verso ciò che lo delude[8].  Allo stesso modo De André che fa, inoltre, dello stesso Cecco, un altro dei personaggi che affollano il suo variegato universo di vittime, e del suo canto il trait-d'union con un altro grande poeta che gli ha dato motivo di ispirazione: François Villon.

 

1.6 Villon - De André (Tutti morimmo a stento).

 

Nell'album Tutti morimmo a stento, De André canta la parte "sporca" della coscienza umana, quella nella quale si trovano le debolezze morali, il rifiuto o l'incapacità di rispettare le regole, quelle regole che sono diretta espressione della società che le ha volute, della "maggioranza".  Per De André,

 

…oggi maggioranza ha un significato numerico, ma deriva dal termine latino maior, che al plurale fa maiores. I maiores nel mondo latino erano coloro che detenevano i privilegi ed esercitavano l'autorità e il potere. Oggi questi maiores sono diminuiti di numero, ma la loro diminuzione è direttamente proporzionale all'aumento in loro favore dei privilegi, dell'autorità, del potere, (ormai) pressoché illimitati […]. I minores […] saremmo poi tutti noi al di là del mestiere che facciamo…[9]

 

Per questo motivo, chi rifiuta queste regole non è un criminale da punire, ma una vittima che si ribella, che cerca una libertà che non potrà avere. Quindi De André canta l'anelito alla ricerca di "altro" e di "oltre", che poi si risolverà nella dissipazione e perdita di sé. Canta i disadattati, facendone dei ribelli verso la maggioranza, verso il sentire comune ed il pensiero unico. Questi personaggi condannati dalle leggi dei majores, col loro sentire confondono l'ordine precostituito, eliminando il principio della contrapposizione netta tra bene e male, presentandoci una vita fatta di intrecci difficili, di azioni e scelte ingiudicabili[10]. Come emblema di tale universo, De André prenderà la figura di François Villon, poeta e uomo "contro", e la sua poesia: ballade des pendus.

La canzone di De André in cui più forte è l'eco di Villon è Ballata degli impiccati,  e già dal titolo sentiamo il chiaro riferimento al poeta francese del Quattrocento. Esaminando il testo possiamo intuire come per entrambi, De André e Villon, l'impiccato non sia un criminale da condannare, ma un simbolo: il simbolo della condizione umana, che vede l'uomo come un disperato in agonia, che cammina sempre su un filo teso tra il male e la morte. Ancora, in comune c'è la descrizione di particolari aspri:

 

 …l'urlo travolse il sole

l'aria divenne stretta…

chi la terra ci sparse sull'ossa...

 …un rancore che ha l'odore del sangue rappreso…

 

 così De André, mentre Villon:

 

…la nostra carne troppo nutrita

da un pezzo è divorata e imputridita…

la pioggia ci ha lavati e ripuliti

e il sole seccati e anneriti.

Le gazze, i corvi ci hanno cavato gli occhi

E strappata la barba e i sopraccigli…[11]

 

Ci sono i segni dell'agonia e della crudeltà; De André:

 

…ricordammo a chi vive ancora

che il prezzo fu la vita

per il male fatto in un'ora.

 

Poi scivolammo nel gelo

Di una morte senza abbandono

Recitando l'antico credo

Di chi muore senza perdono.

 

Chi derise la nostra sconfitta

E l'estrema vergogna ed il modo…

 

Villon:

 

…non siate duri di cuore con noi…

del nostro male nessuno voglia ridere…

noi siamo morti, nessuno ci sbeffeggi…

umani, qui non c'è proprio da scherzare…

 

C'è dunque l'invito a un sentire comune tra impiccato e spettatore, poiché se così non fosse, commetterebbe peccato chi riuscisse a proseguire «tranquillo il cammino» dopo aver sepolto il condannato; De André:

 

…chi derise la nostra sconfitta

e l'estrema vergogna ed il modo

soffocato da identica stretta

impari a conoscere il nodo.

 

Chi la terra ci sparse sull'ossa

E riprese tranquillo il cammino

Giunga anch'egli stravolto alla

 fossa

Con la nebbia del primo mattino

 

La donna che celò in un sorriso

Il disagio di darci memoria

Ritrovi ogni notte sul viso

Un insulto del tempo e una scoria…

 

Villon:

 

Fratelli umani che ancora vivete…

Se pietà di noi poveri avete,

Dio avrà più presto di voi misericordia…

 

Se vi chiamiamo fratelli, non dovete

Risentirvi, benché ci abbia uccisi

La Giustizia…

 

Ciò che invece cambia tra i due è il modo di porsi all'altro. De André lo fa con l’invettiva, augurando allo spettatore le medesime sensazioni e gli stessi dolori, affinché capisca ciò che prova l'impiccato; Villon lo chiama "fratello", invitandolo a pregare per lui e gli altri impiccati, nella misericordia di Dio, il quale avrà misericordia anche di loro.

Dirà tre volte De André:

 

…soffocato da identica stretta

impari a conoscere il nodo…

giunga anch'egli stravolto alla fossa

con la nebbia del primo mattino…

ritrovi ogni notte sul viso

un insulto del tempo e una scoria…

 

mentre cinque volte aveva invocato Villon:

 

…Dio pregate che ci voglia assolvere…

intercedete per noi, che siamo morti…

Dio pregate che ci voglia assolvere…

Dio pregate che ci voglia assolvere…

Dio pregate che ci voglia assolvere.

 

Mentre Villon aveva insistito per tre volte sullo sbeffeggiare degli spettatori, De André si limita ad una:

 

…del nostro male nessuno voglia ridere…

noi siamo morti, nessuno ci sbeffeggi…

umani, qui non c'è proprio da scherzare… (Villon)

 

…chi derise la nostra sconfitta… (De André).

 

Vediamo quindi come i due autori sono legati nei contenuti da un filo comune, da un rapporto che sembra quello esistente tra maestro e allievo. Dirà, infatti, lo stesso De André nella prefazione ad un libro delle poesie di Villon

 

…C'è un filo o piuttosto una corda spessa, che lega l'antico maestro ai suoi allievi dalle più disparate inclinazioni: per primo tra i profani tu hai dato alla forca dignità poetica, hai fatto dell'appeso qualcosa di sacro, di eterno, simbolo inquietante di impermanenza e disagio. […] Eppure altri prima di te, altre vite avevano preceduto la tua lungo più antiche agonie della civiltà ma tu sei stato il primo a indicare che una volta chiusa la croce nel silenzio dei templi gli uomini ne perpetuavano lo scandalo con la forca. […] Io ti scrivo da un'altra epoca illuminata di ragione e di tecnica, dove l'uso della corda «che fa sapere al tuo collo quanto pesa il tuo culo» si è fatto più raro e lontano senza tuttavia scomparire del tutto. La stessa guerra, rinnovatasi di cento in cento anni, non è ancora finita e gli uomini amano come allora menare le armi e le mani e se non ci sono più le caldaie per far bollire i falsari, gli strumenti per dare la morte si sono perfezionati al punto che uno solo di quei cento onnipotenti, un solo Thibault d'Aussigny può decretare la fine dell'umanità in un tempo così breve quanto la pressione di un dito su un pulsante. […] una moderna forma di indagine […] ci informa che oggi siamo tutti molto più ricchi di quanto non lo fossero i tuoi contemporanei, eppure le richieste d'aiuto da parte dei poveri si fanno ogni giorno più disperate e impellenti […]. Ancora oggi siamo capaci di forti sentimenti ma più volentieri li trasformiamo in lacrime seduti a teatro di fronte al dramma di Oreste e di Amleto e ritornando a casa ad occhi asciutti non degniamo neppure di uno sguardo la nostra vicina intenta a contare gli spaghetti per sfamare i figli. Se la tua "grossa Margot" «ti montava da sopra per non sciupasi il frutto», qui da noi stimati professionisti violentano le bambine più volentieri mettendosele di sotto e usano una moderna tecnica di fissaggio delle immagini per immortalare lo stupro […][12].

 

Da queste righe che l'"allievo" scrive per il "maestro", si comprende la visione di una ciclicità storica ed il ripetersi dei soprusi e delle ingiustizie in un divenire che non cambia mai nei contenuti nonostante i continui cambiamenti delle forme. De André spiega, in questa prefazione e nella canzone, come la ricchezza pro capite, gli sviluppi scientifici e l'evoluzione del diritto, se non accompagnati da sogni comuni, da utopie, ideali, o meglio da un sentire comune (soprattutto nel dolore e nella sofferenza), dalla "pietas" insomma, non bastano a migliorare la vita dell'uomo, soprattutto quella dei "minores". E lo stesso De André aveva affermato che «l'uomo potrebbe conquistare le stelle, ma i suoi problemi fondamentali resteranno gli stessi». E ancora che «un uomo senza sogni, senza utopie, senza ideali, sarebbe un mostruoso animale, un cinghiale laureato in matematica pura».[13] 

Le sue frequentazioni della poesia di Villon si possono riscontrare ancora confrontando il testo della canzone Valzer per un amore con un passo del Testamento di Villon, nella parte dedicata alla Ballata all'amica. Qui l'immagine della giovinezza e della passione che svanisce con l'incalzare della vecchiaia diventano un monito che i protagonisti lanciano alla donna amata perché colga subito il fiore del piacere e dell'amore, senza aspettare il tempo in cui non sarà più possibile.

 

…Tempo verrà che ben farà appassire,

Seccare, sfiorire il tuo fiore superbo…(Villon).

 

Quando carica d'anni e di castità

Tra i ricordi e le illusioni

Del bel tempo che non ritornerà

Troverai le mie canzoni

Nel sentirle ti meraviglierai

Che qualcuno abbia lodato

Le bellezze che allor più non avrai

E che avesti nel tempo passato… (De André).

 

Qui sia Villon che De André cantano di come il passare degli anni porti via con sé le bellezze della giovinezza, ma mentre Villon è molto sintetico De André indugia sull’ immagine dell'amata che da vecchia troverà le canzoni che l'innamorato respinto scriveva per lei da giovane meravigliandosi nel sentir parlare di bellezze che non ha più.

 

…Io sarò vecchio, tu brutta, scolorita,

Bevi a piena gola fino a che c'è acqua;

Non dare a tutti lo stesso dolore:

Senza infierire soccorrere chi soffre… (Villon).

 

Vola il tempo, lo sai che vola e va,

forse non ce ne accorgiamo,

ma più ancora del tempo che non ha età,

siamo noi che ce ne andiamo.

E per questo ti dico amore, amor

Io t'attenderò ogni sera,

ma tu vieni non aspettare ancor,

vieni adesso finché è primavera… (De André).

 

Possiamo osservare come i versi sono molto diversi, ma i contenuti sono pressoché  identici. Per entrambi c'è l'invito a godere, finché è possibile, dei frutti che la vita ci offre, senza rimandare fino a quando non sarà più possibile coglierli. Bere finché c'è acqua, cogliere il fiore finché è primavera. Questo, tra l’altro, è un motivo ricorrente nella letteratura sia italiana (tra gli altri, Lorenzo il Magnifico), che latina (tra gli altri, Orazio).

Sempre restando al Testamento di Villon possiamo notare come echi di quest'opera siano presenti anche in un'altra canzone di De André, Il testamento, in cui il richiamo al poeta francese è evidente anche nella scelta del titolo. Questa canzone è appunto il testamento dei beni che un uomo lascia ai i suoi "cari", che probabilmente resteranno delusi dai lasciti del morto. De André adotta la struttura metrica di strofe di otto versi, come Villon. Il moribondo lascia a ognuno qualcosa, che si tratti di beni materiali o meno questo poco importa, è il senso del lascito che conta per svelare gli affetti, i rancori e, in sostanza, la natura dei sentimenti che legano il morto a coloro che restano. Questa canzone si inserisce in quel filone della letteratura che nel Quattrocento francese ha dato molti capolavori e al quale lo stesso Villon aveva attinto. Non vi è però, né in De André né in Villon, il riferimento, tipico di quella tradizione, a quella danza macabra della morte che prende per mano tutti, a qualunque categoria sociale appartengano, per farli ballare insieme. Ma qui non c'è una sola condizione umana che valga qualcosa di fronte alla morte, non c'è il conforto di essere morto come tutti gli altri, c'è al contrario lo sconforto di essere morti e di essere morti da soli. Nessuno in punto di morte può alleviare la sofferenza dell'addio. Non c'è sdegno contro tutto ciò, ma solo un sentimento di impotenza che viene dalla constatazione di quest'ultima solitudine.

 

Chiunque muore, muore con dolore[…]

Né c'è chi dei suoi mali lo sollevi… (Villon).

 

…Cari fratelli dell'altra sponda

Cantammo in coro giù sulla terra

Amammo in cento l'identica donna

Partimmo in mille per la stessa guerra.

Questo ricordo non vi consoli

Quando si muore, si muore soli.

Questo ricordo non vi consoli

Quando si muore si muore soli…(De André).

 

Anche qui i versi sono completamente diversi, c'è una forte manipolazione da parte di De André che prende da Villon solo i contenuti, li usa per chiudere la canzone, mentre in Villon questi versi precedono i lasciti assolvendo ad un funzione  introduttiva.

È presente poi in Villon una breve disquisizione sulla natura delle donne che offre a De André lo spunto per un lascito:

 

…Così, secondo questa usanza, si presero

L'amante, è tutto chiaro:

Amavano tenendolo nascosto,

Visto che nessun altro ci passava.

E tuttavia questo amore poi si spezza,

perché quella che ne aveva uno solo

Da lui si stacca e va per la sua strada

E preferisce amarli tutti quanti […]

 

I folli amanti ne pagano lo scotto

E le signore li battono sul tempo.

È la giusta ricompensa che tocca agli amanti,

ogni patto vi è sempre violato.

Per qualche dolce bacio o qualche abbraccio,

con cani e uccelli, armi e amori,

È pura verità ben nota a tutti -

Per una gioia cento dolori… (Villon).

 

…Voglio lasciare a Biancamaria

Che se ne frega della decenza

Un attestato di benemerenza

Che al matrimonio le spiani la via

Con tanti auguri per chi c'è caduto

Di conservarsi felice e cornuto… (De André).

 

Questo è il primo riferimento al Testamento di Villon che troviamo nell’omonima canzone di De André. Da Villon prende il succo dei versi: le donne seguono la regola di amare un uomo alla volta, ma prima o poi questo amore finisce, allora da «uno solo» si passa ad amare «tutti quanti». Ciò significa per Villon che alle donne un solo uomo non basta. E ciò non è una colpa, poiché dipende proprio dalla loro natura, è una condizione propria dell'essere donna. Perciò all'uomo che di una donna si innamora non resta, per una sola gioia, che sopportare cento dolori. De André nel suo testamento, in modo ironico, fa di questa natura un attestato di benemerenza per la disinvolta Biancamaria che essendo donna e fregandosene della decenza inventata dall'uomo, dà libero sfogo ai suoi sensi. Questo attestato deve servirle a trovare un marito, al quale il moribondo non può che augurare di conservarsi felice, poiché le inclinazioni di Biancamaria sono naturali, ma cornuto poiché in pratica questa è la condizione che gli sarà propria alla luce delle convenzioni sociali.

Scorrendo tra i lasciti di Villon, arriviamo a quello per la moglie:

 

… al mio amore, alla mia cara rosa,

Non lascio il cuore e neanche i fegato;

Le piacerebbe di più qualche altra cosa,

Benché abbia abbastanza denaro…

E cosa? Una gran borsa di seta,

piena di scudi, ben profonda e larga,

Ma che sia subito impiccato, me compreso,

Chi le lasciasse né scudo né targa… (Villon).

 

… Per quella candida vecchia contessa

che non si muove più dal mio letto

per estirparmi l'insana promessa

di riservarle i miei numeri al lotto

non vedo l'ora di andar fra i dannati 

per riferirglieli tutti sbagliati… (De André).

 

In questo lascito c'è un luogo comune, quello della satira contro le donne avide di soldi, verso le quali si scaglia però l'ironica vendetta di De André. Infatti se Villon lascia maledizioni a chi voglia assecondarle, De André le prende in giro rivelando l'intenzione, tra l'altro tutta napoletana, di rivelare da morto, in sogno, i numeri del lotto, ma naturalmente quelli sbagliati.

 

1.7 I Vangeli apocrifi - De André (La buona novella).

 

Il '68 era stato in Italia l'anno della rivolta studentesca, della ribellione dei figli verso il mondo dei padri, l'anno della "rivoluzione". Nello stesso anno De André aveva scritto "S'i' fosse foco" e l'album "Tutti morimmo a stento", di cui abbiamo già parlato. Nella prima canzone aveva cantato la rivolta attraverso il sonetto di Cecco Angiolieri, il quale diverrà personaggio dell'universo del cantautore genovese. Nell'album "Tutti morimmo a stento" aveva tracciato delle analogie tra i tempi di Villon e i giorni nostri, partendo dal dolore di un impiccato. Nel '70, a soli due anni di distanza, ma in un periodo in cui gli echi della  contestazione non sono ancora svaniti, De André sceglie un altro personaggio per i suoi testi. Un personaggio che è sempre stato simbolo di riscatto per i poveri e gli oppressi, ribelle e rivoluzionario verso le Istituzioni imperiali, modello di purezza e rigore morale per i giusti che aborrono la corruzione della società, un simbolo, insomma, di rivolta all'autorità costituita. Questo personaggio è Gesù di Nazaret. Ma il Gesù che De André canta non è quello che la Chiesa ci ha fatto conoscere: "il figlio di Dio fattosi carne per espiare le nostre colpe", che vuole essere adorato, ma l'uomo che col suo esempio vuole insegnarci a vivere con la serenità e la coscienza tranquilla di chi non si è fatto corrompere dal male. L'intento del nostro cantautore è quello di smitizzare la figura di Gesù passato alla storia come Dio, quello di fargli perdere un po’ di sacralità a vantaggio di una migliore e maggiore umanizzazione:

 

…Non intendo cantare la gloria

né invocare la grazia o il perdono

di chi penso non fu altri che un uomo

come Dio passato alla storia

ma inumano è pur sempre l'amore

di chi rantola senza rancore

perdonando con l'ultima voce

chi lo uccide fra le braccia d'una croce…[14].

 

Così De André cantava già nel '67, ma nell'album "La buona novella" il concetto è ripreso e allargato attraverso la figura di personaggi come Maria, Giuseppe, le madri dei ladroni, Tito, il ladro buono del vangelo arabo dell'infanzia. De André prende spunto non dai Vangeli canonici, che riservano pochissimo spazio a questi personaggi, ma dai Vangeli apocrifi, cioè quelli indicati dalla Chiesa come "non autentici", "erronei", "eretici", proprio in contrapposizione a canonico, che significherebbe "autentico", "ispirato". Sceglie gli apocrifi perché sono una testimonianza viva del cristianesimo primitivo, ricchi di un ingenuo bisogno di conoscenza dei credenti verso Maria, Giuseppe e Gesù. Qui tutto ciò che riguarda la vita, i prodigi della nascita e i misteri della sua esistenza sono tramandati attraverso un'elaborazione di tutta la tradizione orientale ed ellenistica. Molte arti, come la pittura, la poesia, la prosa, hanno trovato in questi vangeli motivo di ispirazione e elementi storici utilissimi nel corso dei secoli. Per De André , come per gli Ebioniti (che in ebraico sono gli umili, i poveri), Gesù era l'uomo che ispirato da Jahve, lottava contro i ricchi, i potenti e i profittatori dei deboli, che sempre sono stati il suo bersaglio. Così per i Nazareni era un modello di purezza e rigore morale che li teneva separati dalla corruzione (Nazareno deriva infatti da nazir, che significa separato). E per i zeloti era un rivoluzionario, un sobillatore, come è ancora considerato da alcuni movimenti protestanti dei giorni nostri[15]. Ma soprattutto, come ho già detto, Gesù era per De André un uomo, come uomini erano Giuseppe, Maria, le madri dei ladroni, il falegname che costruisce le croci, e i due ladri Dumaco (o Dimaco) e Tito. E da uomo De André vuole che lo si consideri, lo si ami e lo si lodi

 

…Laudate hominem

 

No, non devo pensarti figlio di Dio

Ma figlio dell'uomo, fratello anche mio.

 

Naturalmente, per soddisfare questa esigenza, niente era meglio, come fonte di ispirazione, dei Vangeli apocrifi, ricchi di tradizioni popolari, avvenimenti particolari sulla vita di Maria, di Giuseppe e dei ladroni, che privilegiano l'aspetto puramente umano e terreno, non teologico delle vicende narrate. De André introduce i personaggi e le vicende che ruotano intorno alla crocifissione, per umanizzare ulteriormente il personaggio principale, Gesù, ma anche per trattare della grande umanità degli altri. Parla della Madonna come di una tenera fanciulla privata della sua adolescenza e spensieratezza e costretta a passare i primi dieci anni della propria vita al Tempio, poi, senza che lei lo desideri, da ragazzina a moglie, da vergine a madre, oltretutto data ad un uomo che lei non ha scelto, che potrebbe essere suo padre e che non potrà darle l'umano e terreno piacere dell'amore e le tenerezze degli amanti.

 

…«Guardala, guardala, scioglie i capelli,

sono più lunghi dei nostri mantelli,

guarda la pelle tenera, lieve,

risplende al sole come la neve»…

 

[…]E fosti tu, Giuseppe,

[…] a vederti assegnata,

da un destino sgarbato,

una figlia di più

senza alcuna ragione

[…] «Quei sacerdoti

la diedero in sposa

a dita troppo secche

per chiudersi su una rosa,

a un cuore troppo vecchio

che ormai si riposa»…

 

Rivede il messaggio evangelico vero e proprio, cioè quello dei dieci comandamenti, attraverso l'esperienza del ladrone Tito, che li commenta confrontandoli con la sua esperienza di vita, facendo risaltare le difficoltà per l'uomo (quello umile, povero, il diseredato in genere), a seguire i precetti divini, fino a metterli in discussione uno per uno in forma testamentaria. De André raggiunge il suo intento elaborando alcuni tratti del Protovangelo di Giacomo, dal quale prende spunto soprattutto per la prima parte dell’ album, dove canta L'infanzia di Maria, Il ritorno di Giuseppe e Il sogno di Maria. Mentre per l'ultima parte, quella de Il testamento di Tito si rifà al Vangelo arabo dell'infanzia. La canzone che apre l’album è proprio L'infanzia di Maria, che è poi il tema con il quale Giacomo apre il suo Vangelo, diviso in tre parti:

nascita e vita di Maria fino alla nascita di Gesù;

commozione, ansia di Giuseppe e constatazione della reale verginità di Maria;

racconto della strage degli innocenti e dell'uccisione del sacerdote Zaccaria.

De André segue questo schema fino al punto due, mentre il tema della strage degli innocenti lo farà intravedere in due versi di Via della croce:

 

…Ben più della morte che oggi ti vuole,

t'uccide il veleno di queste parole:

le voci dei padri di quei neonati,

da Erode, per te, trucidati.

Nel lugubre scherno degli abiti nuovi

misurano a gocce il dolore che provi:

trent'anni hanno atteso, col fegato in mano,

i rantoli d'un ciarlatano…

 

Per quanto riguarda L'infanzia di Maria, là dove Giacomo esprimeva in prosa il trasferimento di Maria al Tempio, De André lo fa in versi:

 

…E allorchè essa compì i due anni, disse Gioacchino ad Anna:

Portiamola al Tempio del Signore, per mantenere la promessa che abbiamo fatta, prima che il Signore ce la richieda e la nostra offerta non sia più ben accetta.

Aspettiamo i tre anni, - rispose Anna, - quando la bambina non avrà più bisogno del babbo e della mamma.

Aspettiamo, - rispose Gioacchino.

Allorché la bambina compì i tre anni, disse Gioacchino:… (Protovangelo di Giacomo)

 

…e Gioacchino disse:

Ecco che ha compiuto

i tre anni! Portiamola perciò

al Tempio del Signore

perché dobbiamo adempiere

alla promessa…

 

[…] cucito qualche giglio

sul vestito alla buona,

forse fu per bisogno

o peggio, per buon esempio,

presero i tuoi tre anni

e li portarono al tempio. (De André)

 

Per quanto riguarda la prima infanzia nel Tempio:

 

Così Maria restò nel Tempio, allevata come una colomba e riceveva il cibo dalla mano di un angelo[…] tu che sei stata allevata per il Santo dei Santi e che ricevi il cibo dalla mano di un angelo…. (Giacomo)

 

Non fu più il seno di Anna,

fra le mura discrete,

a consolare il pianto,

a calmare la sete;

dicono fosse un angelo

a raccontarti le ore,

a misurarti il tempo

fra cibo e Signore.

A misurati il tempo

Fra cibo e Signore

 

…Così Maria bambina visse

nel Tempio del Signore

e la mano di un angelo le offriva

il cibo… (De André)

 

Ma quando Maria compie i dodici anni, tempo che per ogni bambina dovrebbe essere di spensieratezza, di giochi e di allegria, i sacerdoti decidono di allontanarla dal tempio affinché, con le sue mestruazioni non lo contamini, e di darle un marito.

 

…Ma quando ella compì dodici anni, i sacerdoti tennero consiglio e dissero: - Ecco che Maria è giunta all'età di dodici anni nel Tempio del Signore: che faremo ora di lei, perché non abbia a contaminare il Tempio del Signore? -[…] esci e chiama a raccolta i vedovi del popolo; ciascuno di essi porti un bastone, e di colui al quale il Signore darà indicazione con un segno miracoloso, essa sarà la sposa… (Giacomo)

 

Scioglie la neve al sole,

ritorna l'acqua al mare,

il vento e la stagione

ritornano a giocare.

Ma non per te, bambina,

che nel tempio resti china

 

…e quando raggiunse l'età

dei dodici anni i sacerdoti

si riunirono in consiglio

e dissero: «Cosa faremo ora di lei

perché non contamini

il Tempio del Signore?»…

 

E quando i sacerdoti

ti rifiutarono alloggio,

avevi dodici anni

e nessuna colpa addosso:

ma per i sacerdoti

fu colpa il tuo maggio,

la tua verginità

che si tingeva di rosso.

La tua verginità che si tingeva di rosso

 

E si vuol dar marito

A chi non lo voleva… (De André)

 

A questo punto, nel Vangelo di Giacomo escono i banditori per chiamare a raccolta i pretendenti:

 

…Uscirono pertanto i banditori per tutta la regione della Giudea, e risuonò la tromba del Signore e accorsero tutti… (Giacomo)

 

…si batte la campagna,

si fruga la via,

«Popolo senza moglie,

uomini d'ogni leva,

del corpo di una vergine

si fa lotteria»

 

…allora gli araldi andarono

per tutta la Giudea

e risuonò la tromba

e accorse il popolo… (De André)

 

Venne scelto Giuseppe, il quale provò a far notare che era troppo vecchio per una così giovane fanciulla alla quale non avrebbe potuto dare né l'amore di un marito, né i comuni piaceri del corpo, né le semplici e caste carezze di un amante:

 

Allora il sacerdote disse a Giuseppe: - Tu sei stato prescelto a ricevere la vergine del Signore in tua custodia![…] Ho già figli, e sono vecchio, mentre essa è una fanciulla! Che io non abbia a diventare oggetto di scherno per i figli di Israele! (Giacomo)

 

 

…e Zaccaria, il gran sacerdote,

 disse a Giuseppe :

«La sorte ti ha affidato

la vergine del Signore,

abbine cura e custodiscila»…

 

E fosti tu, Giuseppe,

un reduce del passato,

falegname per forza

padre per professione,

a vederti assegnata,

da un destino sgarbato,

una figlia in più

senza alcuna ragione,

una bimba su cui

non avevi intenzione.

E mentre te ne vai,

stanco d'essere stanco,

la bambina per mano,

la tristezza di fianco,

pensi: «Quei sacerdoti

la diedero in sposa

a dita troppo secche

per chiudersi su una rosa,

a un cuore troppo vecchio

che ormai si riposa»… (De André)

 

E quando per un'ennesima volta Maria ha visto decidere gli altri per la sua vita, le tocca tornare a casa con un uomo che potrebbe essere abbondantemente suo padre e che subito la abbandonerà a responsabilità da adulta e da donna di casa poiché lui dovrà partire:

 

…Allora Giuseppe, pieno di timore, prese Maria in sua custodia e le disse: - Ecco, ti ho ricevuta dal Tempio del Signore e adesso ti lascio nella mia casa e me ne vado a lavorare alle mie costruzioni, ma tornerò da te. Il Signore ti custodirà…[16] (Giacomo)

 

…Secondo l'ordine ricevuto, Giuseppe

portò la bambina nella propria casa

e subito se ne partì per lavori

che lo attendevano fuori della Giudea.

Rimase lontano quattro anni. (De André)

 

A questo punto il racconto di Giacomo continua con "l'annunciazione" a Maria dell'arcangelo Gabriele e, solo successivamente, col ritorno di Giuseppe e i suoi timori sulla gravidanza della donna. De André invece inverte l'ordine, cantando prima il ritorno di Giuseppe e il dubbio sulla fedeltà di Maria, poi "l'annunciazione" sotto forma di sogno, con una poesia onirica e quasi visionaria, nella quale solo nell'ultima strofa affiora il racconto del narratore, mentre il resto è descritto in prima persona da Maria. Seguirò adesso l'ordine di Giacomo:

 

…ed ecco una voce che diceva: - Ave, o piena di grazia! Il Signore è con te, benedetta tu fra le donne - … (Giacomo)

 

…l'angelo scese, come ogni sera,

ad insegnarmi una nuova preghiera… (De André)

 

…Ed ecco un angelo del Signore si presentò davanti a lei e le disse: - Non aver paura, Maria: infatti hai trovato favore presso il Signore di tutte le cose, e concepirai per opera della sua parola[…] perciò l'essere, anche esso sacro, che nascerà da te sarà chiamato figlio dell'Altissimo… (Giacomo)

 

…e l'angelo disse:

«Non temere, Maria,

infatti hai trovato grazia

presso il Signore

e per opera Sua

concepirai un figlio» […]

 

Lo chiamerai figlio di Dio - (De André)

 

Quando Giuseppe fa ritorno a casa, dopo quattro anni, trova Maria incinta, naturalmente senza che lui l'avesse mai sfiorata. A questo punto, nel racconto di Giacomo, Giuseppe teme in un primo momento che Maria abbia commesso fornicazione e poi che entrambi abbiano perso la fiducia che in loro avevano riposto i sacerdoti e soprattutto il Signore. Sarà allora un angelo che, apparsogli in sogno, gli spiegherà come sono andate le cose. Nell'opera di De André sarà invece la stessa Maria che racconterà a Giuseppe, che pensava all'adulterio e cercava il motivo di tale inganno, l'inquieto ricordo dell'accaduto «tra i resti di un sogno raccolto».

 

Chi mi ha teso questa insidia? Chi ha commesso questa infamia nella mia casa e ha sedotto questa vergine? […] temo che non provenga davvero da un angelo quello che è in lei… (Giacomo)

 

…e lo stupore nei tuoi occhi

salì dalle tue mani

che, vuote intorno alle sue spalle,

si colmarono ai fianchi

dalla forma precisa

d'una vita recente,

di quel segreto che si svela

Quando lievita il ventre

 

E a te, che cercavi il motivo

D'un inganno inespresso dal volto,

lei propose l'inquieto ricordo

tra i resti d'un sogno raccolto (De André)

 

Solo a questo punto, come ho già detto, nell'opera di De André Maria racconta l'accaduto. A questo punto possiamo sottolineare come se in Giacomo i fatti narrati sono del tutto normali, in De André c’è uno spunto polemico (vedi come chiama "lotteria" l’assegnazione di un marito a Maria).

Per quel che riguarda ancora i Vangeli apocrifi, nel Vangelo dell'infanzia arabo siriaco si racconta di come Giuseppe, Maria e Gesù, che stavano attraversando il deserto, si imbattono nei due ladroni Dumaco e Tito. Questi consentono alla sacra famiglia di passare liberamente senza che gli altri ladroni addormentati li notino. Ciò succede grazie all'intercessione del ladrone buono Tito, il quale deve donare all'amico, per il suo silenzio, quaranta dracme. Ma quando Maria ringrazierà Tito, assicurandogli che il signore lo terrà nelle sue grazie, Gesù, ancora bambino, interverrà per dire alla madre che quando i Giudei lo crocefiggeranno a Gerusalemme quei due ladroni saranno crocefissi con lui. Questo servirà a De André per rappresentare nella canzone Tre madri l'umano dolore delle madri di Dumaco, che lui chiamerà Dimaco e di Tito, che pensano di dover sopportare un dolore più grande di quello di Maria, poiché i loro figli non resusciteranno al terzo giorno:

 

Madre di Tito

Tito, non sei figlio di Dio

Ma c’è chi muore del dirti addio

 

Madre di Dimaco

Dimaco, ignori chi fu tuo padre,

ma più di te muore tua madre

 

Le due madri

Con troppe lacrime piangi, Maria,

solo l’immagine di un’agonia

sai che alla vita, nel terzo giorno,

il tuo figlio farà ritorno

lascia a noi piangere, un po’ più forte,

chi non risorgerà più dalla morte…

 

 De André si sofferma poi sul dolore di Maria, un dolore fortemente umano e terreno, nonostante la consapevolezza della resurrezione del figlio, che la accomuna alle madri dei ladroni, e lo stesso Gesù ai ladroni e agli uomini. E ancora il dolore di una donna che non ha scelto nulla per sé e per suo figlio, sempre altri hanno scelto per lei, e che ora si trova ad avere un figlio, che seppur un dio, lei non desiderava. Tutto ciò che avrebbe invece desiderato era un uomo "normale" da abbracciare ed amare, da tenere vicino e veder sorridere, un comunissimo figlio, non un dio-agnello-sacrificale, ciò che invece le è stato assegnato e che ora le viene crudelmente tolto. Un figlio che senza essere figlio di Dio, sarebbe vissuto di più e di più lei avrebbe potuto "averlo" con sé. Questi concetti sono espressi in una forma e con dei contenuti che eliminano ogni richiamo retorico, tipico della tradizione mariologica della Chiesa, e impregnati di una calda vibrazione umana che fa pensare anche a Jacopone da Todi nella laude Pianto della Madonna, con le numerose ripetizioni del termine «figlio»:

 

Madre di Gesù

…Piango di lui ciò che mi è tolto,

le braccia magre, la fronte, il volto,

ogni sua vita che vive ancora,

che vedo spegnersi ora per ora.

Figlio nel sangue, figlio nel cuore,

e chi ti chiama - nostro Signore-

nella fatica del tuo sorriso

cerca un ritaglio di Paradiso.

Per me sei figlio, vita morente,

come nel grembo, e adesso in croce,

ti chiama ancora questa mia voce.

Non fossi stato figlio di Dio,

t'avrei ancora per figlio mio.

 

Ma nell’opera di De André c’è spazio, oltre che per le madri dei ladroni, anche per il ladrone Tito. Il personaggio di Tito, che nei Vangeli compare solo nell’incontro già ricordato con Maria e Gesù, diventa per il cantautore il depositario del messaggio della Buona Novella, quel messaggio che si carica di fortissime contraddizioni per cui diventa arduo per gli uomini, per tutti gli uomini, interpretare allo stesso modo. E ciò è vero soprattutto per quei «servi disubbidienti alle leggi del branco» «che viaggiano in direzione ostinata e contraria»[17] e che imparano l’amore, vero e proprio messaggio evangelico, solo «nella pietà che non cede al rancore». Tito commenta i dieci comandamenti attraverso la propria esperienza di vita, fatta di sofferenza e stenti, in forma di testamento, un testamento che si chiude con un unico lascito: la pietà umana, solo comandamento e solo sentimento che può portare l’uomo alla fratellanza e all’amore.

 

…io, nel veder quest’uomo che muore,

madre, io provo dolore.

Nella pietà che non cede al rancore,

madre, ho imparato l’amore.

 

1.8 E. Lee Masters (Antologia di Spoon River) – De André (Non al denaro, non all’amore, né al cielo).

 

L’ Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters, è una raccolta di poesie sotto forma di epitaffi. Ogni epitaffio racconta del defunto in un momento particolarmente significativo della propria vita, un momento rappresentativo della reale essenza del suo animo, in modo che, tutti insieme, diventano simbolo della condizione dell’uomo. Il discorso è fatto in prima persona dal defunto, che rivela quelle verità che nella morte può raccontare con estrema sincerità perché non ha più niente da pensare e che in vita ha dovuto nascondere, parlando così come non è mai stato capace di fare prima e facendo venire a galla il tema dell’incomunicabilità. Questi personaggi sono uomini e donne di tutte le classi sociali, rappresentano quasi tutti i mestieri, persone che hanno fatto del bene o del male, belli e brutti, onesti e disonesti. Sono il microcosmo di una piccola città di campagna che può benissimo rappresentare il macrocosmo, la storia del mondo intero, dato che il bene ed il male sono categorie universali dell’umano. I personaggi di Lee Masters sono 244 e 19 delle loro storie sono sviluppate in ritratti intrecciati. L’antologia venne stampata per la prima volta nell’aprile del 1915 e nell’estate dello stesso anno era citata e parodiata in tutta l’America e in Inghilterra. L’Antologia era lo specchio di un mondo che aveva perso la dimensione collettiva del senso della vita, la dimensione comune del senso dell’esistere, per cui gli uomini erano destinati a consumarsi in piccole tragedie personali. De André coglie benissimo lo spirito di quest’opera e la adatta ai suoi tempi, quelli dell’Italia del 1970. Era un’Italia votata alla competizione tra i singoli, il boom economico del decennio precedente, il modello di società capitalista portavano il singolo a misurarsi continuamente con gli altri, ad imitarli o superarli per arrivare a possedere ciò che l’altro non aveva. In un clima del genere il sentimento umano più diffuso è facile che sia l’invidia. E proprio il filone dell’invidia, nell’opera di Lee Masters, sarà quello scelto da De André per le sue nove canzoni, insieme a quello della scienza. Sceglie anche quest’ultimo perché la scienza è per lui un prodotto del progresso, che è nelle mani dello stesso potere che genera l’invidia e che non è ancora riuscita a risolvere i problemi esistenziali. Quindi la scienza come luogo del contrasto tra l’aspirazione del ricercatore e la repressione del sistema. Questi temi, secondo De André, erano stati trattati così bene dai personaggi e dalle storie di Lee Masters, che sarebbe stato inutile per lui inventarne di nuovi, bastava solo adattarli alla realtà italiana. Al filone dell’invidia appartengono: Un matto, tratto dall’epitaffio di Frank Drummer; Un blasfemo, ispirato al personaggio di Wendell P. Bloyd; Un giudice, che risponde al nome di Selah Lively; Un malato di cuore, che in Lee Masters è Francis Turner. Al filone della scienza sono legate le canzoni di: Un chimico, Trainor il Farmacista; Un medico, il dottor Siegfried Iseman, Un ottico, l’ottico Dippold. Le storie ed i personaggi narrati, De André li racchiude in due epigrafi, una iniziale e l’altra finale, che sono La collina, tratta da The hill, con la quale sia Lee Masters che De André aprono le rispettive opere, e Il suonatore Jones, tratto da Fiddler Jones. Con Jones De André chiude, in chiave quasi autobiografica la sua raccolta, affidandogli il messaggio dell’album, che è quello di essere disponibili alla vita dedicandola alla ricerca della libertà come unico modo per darle un senso. Così la vita sarà pura come un ballo di campagna, una melodia di violino o un ricordo di giovinezza.

La prima cosa da dire per aprire il confronto tra i due autori è che se Lee Mastrers aveva usato il verso libero, De André preferisce strofe dai versi ritmati o fortemente assonanti, spesso ricchi di un linguaggio a tratti brutale «un nano è una carogna di sicuro/ perché ha il cuore troppo vicino al buco del culo»[18]. Ma, fatto questo breve esempio, passerò subito al confronto tra i testi.

 

                                       

La collina

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,

il debole di volontà, il forte di braccia, il buffone,

l’ubriacone, l’attaccabrighe?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

 

Uno morì di febbre,

uno bruciato in miniera,

uno ucciso in una rissa,

uno morì in prigione,

uno cadde da un ponte mentre faticava per moglie e figli –

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina… (Lee Masters)

 

Dove se n’è andato Elmer

Che di febbre si lasciò morire,

dov’è Herman bruciato in miniera.

Dove sono Bert e Tom,

il primo ucciso in una rissa

e l’altro che uscì già morto di galera.

E cosa ne sarà di Charley

Che cadde mentre lavorava

E dal ponte volò e volò sulla strada.

 

Dormono, dormono sulla collina… (De André)

 

Qui i riferimenti sono fin troppo chiari, persino i nomi dei personaggi sono rimasti invariati, come invariata è la causa della loro morte. Ciò che De André varia è l’ordine nel quale inserisce le cause delle morti: in Lee Masters è messa in successione corrispondente all’ordine dei nomi solo dopo che ha introdotto i tratti fondamentali del carattere dei personaggi; in De André invece la causa della morte è rivelata subito dopo il nome dei personaggi, dei quali mancano, però, i tratti caratteriali. Continua Lee Masters:

 

…Dove sono Ella, Kate, Mag, Lizzie e Edith,

il cuore tenero, l’anima semplice, la chiassosa, la superba, l’allegrona? –

tutte, tutte, dormono sulla collina.

 

Una morì di parto clandestino,

una di amore contrastato,

una fra le mani di un bruto in un bordello,

una di orgoglio infranto, inseguendo il desiderio del cuore,

una dopo una vita lontano a Londra e Parigi

fu riportata nel suo piccolo spazio accanto a Ella e Kata e Mag –

tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina… (Lee Masters)

 

Dove sono Ella e Kate

Morte entrambe per errore

Una di aborto, l’altra d’amore.

E Maggie uccisa in un bordello

Dalle carezze d’un animale

E Edith consumata da uno strano male.

E Lizzie che inseguì la vita

Lontano, e dall’Inghilterra

Fu riportata in questo palmo di terra.

 

Dormono, dormono sulla collina… ( De André)

 

Anche qui si ripropone la stessa situazione dei versi precedenti, con De André che opera solo per Ella e Kate una piccolissima differenza: le nomina, come Lee Masters, una dopo l’altra e ne spiega la morte, accomunandole per il fatto che entrambe le morti sono considerate, pur nella loro diversità, un errore.

 Continua poi la processione funebre di Lee Masters con dei morti di guerra, che De André riprende in chiave chiaramente antimilitarista:

 

Dove sono zio Isaac e zia Emily,

e il vecchioTowny Kincaid e Sevigne Houghto,

e il maggiore Walker che aveva parlato

con i venerandi uomini della rivoluzione? –

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Li portano figli morti in guerra,

e figlie che la vita aveva spezzato,

e i loro orfani, in lacrime –

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina… (Lee Masters)

 

Dove sono i generali

Che si fregiarono nelle battaglie

Con cimiteri di croci sul petto,

dove i figli della guerra

partiti per un ideale

per una truffa, per un amore finito male:

hanno rimandato a casa

le loro spoglie nelle bandiere

legate strette perché sembrassero intere…

 

Dormono, dormono sulla collina (De André)

 

In questi versi De André elimina i nomi dei personaggi, soprattutto quello degli zii, per attirare maggiormente l’attenzione sui generali e sull’aspetto militare delle vicende. Aggiunge i versi «…con cimiteri di croci sul petto…», «…i figli della guerra/ partiti per un ideale/ per una truffa…», che mancano in Lee Masters, per evidenziare il suo antimilitarismo. Poi entrambi chiudono la propria opera con un ricordo del suonatore Jones che è il simbolo della bellezza del vivere, l’unico che ha dato un senso alla vita, dedicandola alla ricerca di una libertà immateriale, che è giunto a novant’anni infischiandosene di Dio, del denaro e dell’amore, ma che si è goduto la vita tra suonate, balli e compagni ubriachi, abbandonando i suoi campi alle erbacce.

 

Dov’è il veccho Jones, il violinista

Che giocò per novant’anni con la vita,

sfidando il nevischio a petto nudo,

bevendo, schiamazzando, infischiandosi di moglie e parenti,

e danaro, e amore, e cielo?

Eccolo! Ciancia delle sagre di pesce fritto di tanti anni fa,

delle corse dei cavalli di tanti anni fa a Clary’s Grove,

di ciò che Abe Lincoln disse

una volta a Springfield. (Lee Masters)

 

Dov’è Jones il suonatore

Che fu sorpreso dai suoi novant’anni

E con la  vita avrebbe ancora giocato.

Lui che offrì la faccia al vento,

la gola al vino e mai un pensiero

non al denaro, non all’amore, né al cielo.

Lui sì, sembra di sentirlo

Cianciare ancora delle porcate

Mangiate in strada nelle ore sbagliate,

sembra di sentirlo ancora

dire al mercante di liquore

Tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore? – (De André)

 

Qui Lee Masters parla di Jones come un suonatore di violino, mentre De André omette questo particolare, poiché per ragioni metriche lo farà diventare, nella canzone interamente dedicata a lui, un suonatore di flauto. Ma per entrambi gli autori il ricordo di Jones è così forte che sembra ancora di sentirlo parlare di mangiate, bevute e corse di cavalli.

La seconda canzone dell’album di De André è Un matto, ispirata alla vicenda di Frank Drummer. È quella più corta tra le poesie di Lee Masters, quindi quella in cui di più De Andrè ci mette di suo. Ma se Lee Masters si limita a fare una breve accenno a  ciò che è stato, De André ci chiede di immaginare la situazione nella quale si trova il protagonista e inserisce il tema del sogno.

 

… Non avevo le parole per dire cosa mi si agitasse dentro,

e il villaggio mi prese per idiota.

Eppure l’idea iniziale era chiara,

un disegno grandioso e assillante nell’anima

che mi spinse all’impresa di imparare a memoria

l’Enciclopedia Britannica! (Lee Masters)

 

       Tu prova ad avere un mondo nel cuore

e non riesci ad esprimerlo con le parole,

e la luce del giorno si divide la piazza

tra un villaggio che ride e te, lo scemo che passa,

e neppure la notte ti lascia da solo:

gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro. […]

io cercai di imparare la Treccani a memoria,

e dopo maiale, Majakowsky, malfatto,

continuarono gli altri fino a leggermi matto… (De André)

 

In entrambi i casi l’idea del protagonista è quella di un riscatto personale (mosso dall’invidia), che lo spinge alla ricerca di uno studio così approfondito da farlo impazzire[19].

Il terzo brano, Un giudice, è la storia de Il giudice Selah Lively, basso di statura, che spesso, per questo motivo, è burlato dai suoi concittadini e che ha fatto vita da subalterno prima come garzone da bottega, poi studiando legge e frequentando la chiesa, per poi diventare prima legale di un "cercatore di tesori terreni" e infine, finalmente, giudice di contea. Dalla breve esposizione della sua vita si capisce che ciò che lo spinge è l’invidia, il rancore verso tutti quelli che lo hanno umiliato e che lui per vendetta, raggiunto il potere, umilierà.

 

Immaginate d’essere alto un metro e cinquantotto… […]

E che tutto il tempo

Vi burlino per la statura, e vi scherniscano… (Lee Masters)

 

Cosa vuol dire avere

Un metro e mezzo di statura,

ve lo rivelan gli occhi

e le battute della gente,

o la curiosità

di una ragazza irriverente

che vi avvicina solo

per un suo dubbio impertinente:

vuole scoprir se è vero

quanto si dice intorno ai nani,

che siano i più forniti

della virtù meno apparente

fra tutte le virtù

la più indecente… (De André)

 

Qui Lee Masters si limita a lasciarci immaginare la siruazione del "nano", mentre De André ci dice che quella situazione ce la rivelano «le battute della gente,/ o la curiosità/ d’una ragazza irriverente…», tutti tendenti a ridicolizzare la statura o a vederla in una improbabile relazione di proporzioni col sesso, unica cosa forse “apprezzabile” da chi disprezza il nano («…è una carogna di sicuro/ perché ha il cuore troppo/ troppo vicino al buco del culo»).

 

… studiando legge al lume di candela,

fino a diventare avvocato.

E immaginate che grazie al vostro zelo,

e all’assidua frequentazione della chiesa,

siete diventato il legale di Thomas Rhodes…[…]

infine siete diventato giudice di contea. (Lee Masters)

 

Fu nelle notti insonni

vegliate al lume del rancore

che preparai gli esami,

diventai procuratore,

per imboccar la strada

che dalle panche di una cattedrale

porta alla sacrestia

quindi alla cattedra di un tribunale,

giudice finalmente,

arbitro in terra del bene e del male… (De André)

 

In queste strofe è evidenziato il rancore del futuro giudice, il sentimento di rivalsa che lo spinge a studiare per arrivare al potere. Segue poi il suo comportamento da giudice, che è il risultato diretto dell’invidia che lo ha spinto. Da giudice, «diventa una carogna perché la gente carogna lo fa diventare carogna: è un parto della carogneria generale. Questa definizione è una specie di emblema della cattiveria della gente»[20].

 

…Infine siete divenuto giudice di contea.

E Jefferson Howard e Kinsey Keene

e Harmon Whitney e tutti quei giganti

che vi avevano beffato, sono costretti

alla sbarra a dire «Vostro Onore» -

be’, non vi pare giusto

che gliel’abbia fatta pagare? (Lee Masters)

 

…E allora la mia statura

Non dispensò più buonumore

A chi alla sbarra in piedi

Mi diceva «Vostro Onore»,

e di affidarli al boia

fu un piacere del tutto mio,

prima di genuflettermi

nell’ora dell’addio,

non conoscendo affatto

la statura di Dio. (De André)

 

In queste ultime strofe De André elimina ancora una volta i nomi dei personaggi che in Lee Masters si erano beffati del protagonista, mettendo in evidenza il capovolgimento dei ruoli: se prima era lui a "dispensare buonumore" agli altri, a causa della statura, ora invece si diverte nel condannarli e loro non hanno più voglia di divertirsi nello sbeffeggiarlo, perché sono troppo preoccupati ad attendere la sua sentenza, che può essere di morte. Se prima lo schernivano con spavalderia da "giganti" poi sono costretti a chiamarlo, con servilismo direi io, "Vostro Onore". Ma ciò non basta a salvar loro la vita.

La quarta canzone di De André è Un blasfemo, ispirata alla tragica vicenda di Wendell P. Bloyd. Nella poesia di Lee Masters che Wendell fosse in realtà blasfemo lo si capisce dalla sua vicenda, ma il termine non compare mai, mentre nella canzone di De André compare tre volte compreso il titolo. Wendell è una vittima dell’ottusità collettiva, un esegeta dell’invidia, di cui fa risalire l’origine a Dio, sia in Lee Masters che in De André. Sarà proprio questa la causa della sua morte, poiché verrà rinchiuso (in manicomio, nella poesia di Lee Masters, in prigione in quella di De André) e pestato da secondini bigotti. Ma se Lee Masters si era limitato alla vicenda del blasfemo ucciso dal bigottismo, De André inserisce un altro tema nella sua canzone, quello della mela proibita come simbolo di potere non nelle mani di Dio, ma in quelle del potere poliziesco. Quel potere che ha inventato il giardino incantato e costringe l’uomo a sognare dopo averlo staccato dalla realtà, a pensare secondo il proprio interesse. Perciò è facile capire che questa mela in realtà non è stata ancora rubata: «…E se furono due guardie a fermarmi la vita,/ è proprio qui sulla terra la mela proibita,/ e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato,/ ci costringe a sognare in un giardino incantato».

 

Prima mi accusarono per condotta molesta,

non essendoci leggi contro la bestemmia.

Poi mi rinchiusero in manicomio

e fui ammazzato di botte da un sorvegliante cattolico.

Il mio torto fu questo:

dissi che Dio mentì ad Adamo e lo destinò

a vivere una vita da sciocco,

ignaro del male come del bene del mondo.

E quando Adamo gabbò Dio mangiando la mela

e scoprì la menzogna,

Dio lo cacciò dall’Eden per impedirgli di cogliere

il frutto della vita immortale… (Lee Masters)

 

…Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,

non avendo leggi per punire un blasfemo,

non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,

mi cercarono l’anima a forza di botte

perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo,

lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,

nel giardino incantato lo costrinse a sognare,

a ignorare che al mondo c’è il bene e c’è il male

 

Quando vide che l’uomo allungava le dita

A rubargli il mistero d’una mela proibita

Per paura che ormai non avesse padroni

Lo fermò con la morte, inventò le stagioni… (De André)

 

Si veda come in Lee Masters il motivo per il quale Wendell viene rinchiuso, pur non essendo il vero motivo, è quello di "condotta molesta". In De André la condotta molesta viene subito indicata con la frequentazione di "donne" e "vino", che ci rimanda a quel mondo di ubriachi, prostitute, disgraziati, che è il mondo dei suoi personaggi[21]. Per entrambi invece, la causa della morte sono le botte di guardie "cattoliche" (per Lee Masters) o "bigotte" (per De André). Il motivo è, ancora per entrambi, il fatto che Wendell avesse affermato che Dio aveva imbrogliato il primo uomo, facendogli credere che tutto fosse "bene", destinandolo a condurre una vita da sciocco ignorando l’esistenza del male. Ma quando l'uomo ruba la mela, simbolo di conoscenza, tutto gli diventa chiaro ed esce dalla stupidità nella quale Dio l'aveva confinato. A questo punto Dio, per invidia, lo espelle dal Paradiso destinandolo a vita mortale. In Lee Masters però, Dio espelle l'uomo dal Paradiso perché teme che rubato il frutto della conoscenza possa rubare anche quello dell'immortalità. In De André invece il motivo è la paura di Dio nei confronti di un uomo che non ha più padroni perché ha mangiato il frutto della conoscenza che libera dall'ignoranza e dalla schiavitù. Da qui in poi De André introduce il tema assente in Lee Masters al quale ho già accennato, quello cioè di una mela proibita che in effetti non è mai stata rubata dall'Eden, poiché è ancora qui sulla terra protetta da un potere poliziesco che «ci costringe a sognare in un giardino incantato». Mentre Lee Masters si affanna a spiegare alla gente di «buon senso» l'invidia di Dio nei confronti dell'uomo.

 

…Ma, Cristo! voi gente di buon senso,

ecco cosa dice Dio stesso nel libro del Genesi: «E il Signore Iddio disse, ecco che l'uomo

è diventato come uno di noi» (un po' d'invidia,

vedete),

«a conoscere il bene e il male»… (Lee Masters).

 

…E se furono due guardie a fermarmi la vita,

è proprio qui sulla terra la mela proibita,

e non Dio, ma qualcuno che per noi l'ha inventato,

ci costringe a sognare in un giardino incantato. (De André).

 

La quinta canzone è quella che in De André chiude il ciclo dell'invidia: Un malato di cuore, ispirata alla poesia di Francis Turner. Qui l'invidia è risolta in modo positivo, perché il malato, pur essendo nelle condizioni ideali per essere invidioso, compie un gesto di coraggio scavalcando l'invidia perché a spingerlo è stata la forza dell'amore.  Quindi rappresenta il trionfo sulla vita dato dalla capacità di amare, capacità che hanno solo i "disponibili". La poesia di Lee Masters è molto sintetica rispetto alla canzone di De André, che approfondisce di più le sensazioni del malato ed i ricordi della fanciullezza. Arriva ad affermare di non aver mai capito se il cuore gli si è fermato per il troppo sgomento o per la troppa felicità, e di essere invece sicuro di non aver chiesto promesse alla donna che stava con lui e di essere morto senza sapere se «…quelle sue cosce color madreperla/ rimasero forse un fiore non colto». Di una cosa il morto è certo: di averla baciata.

 

Da ragazzo

Non potevo correre né giocare.

(Lee Masters).

 

…Da ragazzo spiare i ragazzi giocare

al ritmo balordo del tuo cuore malato

e ti viene voglia di uscire e provare

che cosa ti manca per correre al prato,

e ti viene la voglia, e rimani a pensare

come diavolo fanno a riprendere fiato… (De André).

 

In questi versi iniziali Lee Masters racconta l'impossibilità del ragazzo a correre e a giocare, mentre De André descrive lo stesso ragazzo costretto a stare in casa e a guardare gli altri giocare, restando con la voglia di provare anche lui a correre e con l'incapacità a capire le differenze tra lui e gli altri, come mai lui resta senza fiato mentre gli altri continuano a correre.

 

…Da uomo potei solo sorseggiare dalla coppa,

non bere -

perché dopo la scarlattina m'era rimasto il cuore

malato… (Lee Masters).

 

…Da uomo avvertire il tempo sprecato

A farti narrare la vita dagli occhi

E mai poter bere alla coppa d'un fiato

Ma a piccoli sorsi interrotti… (De André)

 

In questi altri versi Lee Masters passa all'età adulta del personaggio, sempre segnata dalla malattia che lo costringe a comportarsi diversamente dagli altri anche nelle piccole cose di tutti i giorni, e ne spiega il motivo, cioè la scarlattina che gli ha lasciato il cuore malato. De André ne riprende l'esempio e aggiunge l'impressione, nel malato adulto, di avere sprecato il tempo della propria giovinezza e di ricordarlo solo in ciò che ha visto fare agli altri, ma che non ha potuto fare di persona, come il correre e il giocare degli altri bambini visti nei versi precedenti.

 

Eppure riposo qui

Consolato da un segreto che solo Mary conosce:

c'è un giardino di acacie,

di catalpe e di pergole dolci di viti -

là, quel pomeriggio di giugno

a fianco di Mary -

mentre la baciavo con l'anima sulle labbra

l'anima d'un tratto volò via. (Lee Masters).

 

…Eppure un sorriso io l'ho regalato[…]

quando io la guidai o fui forse guidato

a contarle i capelli con le mani sudate. […] quando il cuore stordì e ora no, non ricordo

se fu troppo sgomento o troppo felice[…]

e fra lo spettacolo dolce dell'erba […]

ma che la baciai, questo si lo ricordo,

col cuore ormai sulle labbra,

ma che la baciai, per dio sì, lo ricordo,

e il mio cuore le restò sulle labbra

 

E l'anima d'improvviso prese il volo

Ma non mi sento di sognare con loro… De André).

 

Nella parte finale della poesia Lee Masters racconta gli ultimi momenti del malato in un giardino, quando muore, per un probabile attacco di cuore «con l'anima sulle labbra», mentre bacia Mary. Anche De André lo fa, omettendo però il nome della ragazza, sostituendo il «giardino» di Lee Masters con «lo spettacolo dolce dell'erba» e inserendo il fatto di aver regalato un sorriso e di non riuscire a «sognare con loro». "Loro" potrebbero essere gli altri personaggi che nella vita sono stati spinti dall'invidia, mentre lui non ha invidiato nessuno nonostante l'handicap che si porta fin da bambino. È per questo motivo Francis Turner è in De André il personaggio positivo che risolve il tema dell'invidia contrapponendo a questa l'amore come trionfo della vita.

Da qui comincia in De André il filone della scienza, la quale, classico prodotto in mano a quel potere che genera l'invidia, dovrebbe risolvere i problemi esistenziali della gente comune, ma non c'è ancora riuscita. La prima canzone di questo filone è Un medico, ispirata alla vicenda de Il dottor Siegfried Iseman. Questo è un medico che vuole applicare la dottrina cristiana alla scienza, alla medicina. Vuole cioè curare con generosità e senza farsi pagare dai poveri e dai malati. Ma presto prenderà coscienza che senza farsi pagare non può vivere, e si vedrà costretto a inventare un elisir di giovinezza che lo farà condannare dal giudice federale alla galera.

 

Dissi, quando mi consegnarono il diploma,

dissi a me stesso sarò buono

e saggio e forte e generoso col prossimo;

dissi porterò la fede cristiana

nella pratica della medicina!… (Lee Masters).

 

Da bambino volevo guarire i ciliegi

quando rossi di frutti li credevo feriti […]

Un sogno, fu un sogno ma non durò poco,

per questo giurai che avrei fatto il dottore,

e non per un dio ma nemmeno per gioco […]

E quando dottore lo fui finalmente

Non volli tradire il bambino per l'uomo

E vennero in tanti e si chiamavano gente

Ciliegi malati in ogni stagione […] (De André)

 

È da notare come in Lee Masters ciò che spinge il dottore è la fede cristiana, Dio, mentre in De André è il sogno di un bambino, cioè un sentimento umano puro, poiché la fanciullezza è sinonimo di purezza. Ciò è da attribuire al fatto che De André, come abbiamo visto ne La buona novella, tende più che ad adorare un dio, a sperare nell'uomo: «laudate hominem» era la canzone con la quale chiudeva il disco precedente. Quindi ciò che spinge l'uomo è un sogno fatto da bambino e l'amore per i propri simili.

 

…Ma, non so come, il mondo e gli altri medici

Sentono subito cos'hai in mente quando prendi

Quest'eroica decisione.

E va a finire che ti prendono per fame.

Verranno da te solo i poveri.

E ti accorgi troppo tardi che fare il medico

È solo un modo per guadagnarsi da vivere.

E quando sei povero e devi tirare avanti

la fede cristiana e la moglie e i figli

tutti sulle tue spalle, è troppo! (Lee Masters).

 

…E i colleghi d'accordo, i colleghi contenti

Nel leggermi in cuore tanta voglia d'amare,

mi spedirono il meglio dei loro clienti

con la diagnosi in faccia e per tutti era uguale:

ammalato di fame, incapace a pagare.

 

E allora capii, fui costretto a capire,

che fare il dottore è soltanto un mestiere,

che la scienza non puoi regalarla alla gente

se non vuoi ammalarti dell'identico male,

se non vuoi che il sistema ti pigli per fame…

 

E il sistema sicuro è pigliarti per fame

Nei tuoi figli, in tua moglie che ormai ti disprezza…(De André).

 

Qui i due autori sviluppano le conseguenze della decisione del dottore. Sia per Lee Masters che per De André, il dottore finisce per curare solo i poveri che non possono pagare e che gli spediscono gli altri dottori meno "amorevoli", arrivando al punto di essere disprezzato da moglie e figli e di ammalarsi dello stesso male: la povertà. A questo punto il dottore è costretto a prendere coscienza che il suo è un lavoro come tutti gli altri, un modo per guadagnarsi da vivere e non una missione che permette di regalare la scienza ai poveri per guarirli dai loro mali. Ma in De André è più marcato l'aspetto della scienza come strumento per il bene comune, ma che in effetti può permettersi solo chi paga, quindi strumento di potere in mano agli avidi, ai forti, che fanno di tutto perché resti tale. Infatti introduce quel verso che non ha un corrispondente vero e proprio in Lee Masters: «…che la scienza non puoi regalarla alla gente…».

 

…Ecco perché fabbricai l'elisir di giovinezza,

per cui finii in prigione a Peoria

marchiato come truffatore ed imbroglione

dall'integerrimo giudice federale! (Lee Masters).

 

…perciò chiusi in bottiglia quei fiori di neve,

l'etichetta diceva: elisir di giovinezza.

 

E un giudice, un giudice con la faccia da uomo

Mi spedì a sfogliare i tramonti in prigione

Inutile al mondo ed alle mie dita,

bollato per sempre truffatore imbroglione,

dottor professor truffatore imbroglione. (De André).

 

Queste sono le conclusioni: il dottore si vede costretto a usare la scienza per sopravvivere, ma frustrato nella sua aspirazione umanitaria, lo fa in modo truffaldino procurandosi la galera impostagli da un giudice che, seppur «con la faccia da uomo», applica la legge senza un minimo di umanità e senza preoccuparsi di indagare nelle vicende umane e passate del condannato, che da generoso dottore dei poveri diventa truffatore e imbroglione di tutti i malati.

De André elimina il nome della prigione nella quale finisce il dottore, che era invece presente in Lee Masters, e aggiunge gli ingredienti con cui ha creato l'elisir e l'accenno al giudice con la faccia da uomo, per contrapporlo ai sentimenti poco umani dimostrati nei confronti di un uomo che umano lo era stato moltissimo.

La settima canzone del disco è Un chimico, ispirata all'epitaffio di Trainor, il farmacista. Nello stile che lo contraddistingue, Lee Masters è molto breve e sintetico, mentre De André si lascia andare, come nella canzone precedente, ad una serie di aggiunte e di riflessioni che mancano nell'Antologia di Spoon River. Ciò che manca in De André, ancora una volta, sono i nomi; sia quello del protagonista Trainor che quello dello sposo Bemjamin Pantier citati nell'epitaffio di Lee Masters. Ciò che è aggiunto è il riferimento al cadavere portato in collina, «fra i tanti a dar fosforo all'aria», con un riferimento alla vita come composto di sostanze chimiche. E ancora gli effetti dell'amore sui volti di uomini e donne innamorati, cose che non seguono nessuna legge scritta e che quindi il chimico non può capire: «…Guardate il sorriso, guardate il colore/ come giocan sul viso di chi cerca l'amore:/ ma lo stesso sorriso, lo stesso colore/ dove sono sul viso di chi ha avuto l'amore…». Per quanto riguarda le parti in cui si sente più forte l'eco di Lee Masters possiamo cominciare subito dall'esordio:

 

Solo un chimico può dirlo, e non sempre,

cosa risulterà dalla combinazione

di fluidi o di solidi.

E chi può dire

Come uomini e donne reagiranno

Insieme, e che figli ne usciranno?… (Lee Masters).

 

…Da chimico un giorno avevo il potere

Di sposare gli elementi e farli reagire,

ma gli uomini mai mi riuscì di capire

perché si combinassero attraverso l'amore.

Affidando ad un gioco la gioia e il dolore… (De André).

 

Possiamo vedere come De André usa il verbo "sposare" riferito agli elementi chimici, mentre in riferimento agli uomini usa "combinare". Probabilmente il suo fine è quello di avvicinare gli uomini, fatti anche di sostanze chimiche, agli elementi, ma evidenziando poi come si ottiene un risultato fallimentare se si pretende che questo fatto possa renderli classificabili e prevedibili come gli elementi della tavola Mendeleev. Tralasciando la parte intermedia della poesia di Lee Masters, nella quale si accenna ad una coppia di cui non parla De André, possiamo subito mettere a confronto le parti finali.

 

…Io, Trainor, il farmacista, mestatore di sostanze

chimiche,

morto in un esperimento,

vissi senza sposarmi. (Lee Masters).

 

…Ma guardate l'idrogeno tacere nel mare,

guardate l'ossigeno al suo fianco dormire:

soltanto una legge che io riesco a capire

ha potuto sposarli senza farli scoppiare.

Soltanto una legge che io riesco a capire.

 

Fui chimico e no, non mi volli sposare,

non sapevo con chi e chi avrei generato:

son morto in un esperimento sbagliato… (De André).

 

In questi ultimi versi Trainor rivela la sua professione, la causa della morte e il fatto di non essersi mai sposato, lasciandoci solo intuire il perché. Il chimico di De André invece si dilunga un po', spiega come l'idrogeno e l'ossigeno possano combinarsi (lui usa sposarsi) senza esplodere grazie a delle leggi certe della chimica che il farmacista conosce, mentre non si è potuto sposare perché non avrebbe potuto conoscere , in senso chimico, la moglie, né cosa sarebbe nato dalla loro combinazione. In entrambi i casi, sia il farmacista di Lee Masters che il chimico di De André, muoiono per un esperimento sbagliato, quasi a dire che in fondo nemmeno nella chimica vi sono delle leggi assolute e certe che l'uomo può conoscere senza possibilità di errori, o se ci sono non può certo conoscerle tutte, rivelando come la "scienza" in questo caso non ha portato nessun vantaggio esistenziale all' "uomo".

L'ottava canzone, Un ottico, è ispirata alla vicenda di Dippold l'ottico. Quest'uomo di scienza, come il medico di cui ho già parlato, vuole mettere le sue conoscenze a disposizione dell'umanità, ma mentre il primo lo faceva curando malattie, questo diventa una specie di spacciatore di luce. Monta ai suoi clienti delle lenti che alterano in modo creativo la realtà con lo scopo di trasformarla in luce, facendo in modo che si veda non ciò che è "dato" vedere, ma ciò che si vuole vedere reinventando la realtà, vivendola come meglio si crede. Qui la canzone di De André è molto diversa nel testo rispetto alla poesia di Lee Masters. Ad esempio nella seconda il cliente che va dall'ottico è uno solo. Prova ben dodici lenti diverse, ognuna delle quali dà diverse visioni, prima di scegliere appunto l'ultima. Lenti che procurano visioni che vanno da «….Globi di rosso, giallo, porpora…» a «….Cavalieri in armi, donne bellissime, visi delicati…» fino alla visione della dodicesima lente «…Luce, soltanto luce, che trasforma tutto il mondo/ sottostante in giocattolo…». Nella prima invece i clienti sono quattro. Anche questi hanno visioni differenti:

 

I cliente:

…Vedo che salgo a rubare il sole

Per non aver più notti

Perché non cada in reti di tramonti,

l'ho chiuso nei miei occhi,

e chi avrà freddo

lungo il mio sguardo si dovrà scaldare

 

II cliente:

Vedo i fiumi dentro le mie vene,

cercano il loro mare,

rompono gli argini,

trovano cieli da fotografare.

Sangue che scorre senza fantasia

Porta tumori di malinconia.

 

III cliente:

Vedo gendarmi pascolare donne

Chine sulla rugiada,

rosse le lingue al polline dei fiori

ma dov'è l'ape regina?

Forse è volata ai nidi dell'aurora,

forse è volata, forse più non vola.

 

IV cliente:

Vedo gli amici ancora sulla strada,

loro non hanno fretta,

rubano ancora al sonno l'allegria,

all'alba un po' di notte:

e poi la luce, luce che trasforma

il mondo in un giocattolo… (De André).

 

Qui l'eco di Lee Masters si sente esclusivamente nei contenuti, mentre per le visioni riportate c'è una totale differenza. Inoltre anche l'esordio è totalmente differente. Con Lee Masters si comincia con l'ottico che fa le domande al paziente:

 

Che cosa vede adesso?… (Lee Masters).

 

 Con De André si vede l'ottico che parla come un venditore ambulante:

 

Daltonici ,presbiti, mendicanti di vista,

il mercante di luce, il vostro oculista,

ora vuole soltanto clienti speciali

che non sanno che farne di occhi normali.

Non più ottico, ma spacciatore di lenti,

per improvvisare occhi contenti,

perché le pupille abituate a copiare

inventino i mondi sui quali guardare.

Seguite con me questi occhi sognare,

fuggire dall'orbita, e non voler ritornare… (De André).

 

Si ha poi la conclusione che è quasi identica in entrambi gli autori:

 

…Luce, soltanto luce, che trasforma tutto il mondo

sottostante in giocattolo.

Benissimo, faremo gli occhiali così. (Lee Masters).

 

…e poi la luce, luce che trasforma

il mondo in un giocattolo.

 

Faremo gli occhiali così!

Faremo gli occhiali così! (De André).

 

La canzone che chiude l'album, Il suonatore Jones, è ispirata alla vita di Jones il violinista. Anche lui è un ricercatore, come il medico, il chimico, l'ottico e possiamo dire tutti gli altri personaggi dell'album. Ma mentre gli altri sono spinti alla ricerca da esigenze scientifiche o da invidia, Jones, insieme al malato di cuore, è il personaggio positivo, spinto alla ricerca della libertà attraverso la disponibilità alla vita e al divertimento puro. La sua disponibilità viene dal fatto che il suo tentativo non è quello di arricchirsi o vendicarsi, ma quello di fare ciò che più gli è congeniale, che gli piace e lo soddisfa, cioè suonare. Ama il gioco, la tavola e le donne e per queste cose muore povero ma libero e senza rimpianti. «Per Jones la musica non è un mestiere, un'alternativa: ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà», così dichiarava De André in una intervista con Fernanda Pivano[22]. Con queste parole il cantautore genovese dichiarava la sua ammirazione per il personaggio di Lee Masters ed allo stesso tempo affermava la difficoltà riscontrata nell'essersi calato nei suoi panni, dato che De André era un professionista della musica. Per questo seguiva immediatamente nell'intervista un'ardita dichiarazione d'intenti: «in questo momento non so dirti se non finirò prima o poi per seguire il suo - di Jones - esempio»[23]. Ma vediamo come De André si immedesima nella figura di Jones e quanto prende dalla poesia di Lee Masters.

 

…Per Cooney Potter una colonna di polvere

O un turbinio di foglie significavano rovinosa siccità;

a me sembrava di vedere Red-Head Sammy

quando ballava Toor-a-Loor da par suo… (Lee Masters).

 

In un vortice di polvere

Gli altri vedeva siccità, a me ricordava

La gonna di Jenny

In un ballo di tanti anni fa… (De André).

 

Vediamo come questa volta De André non elimina completamente i nomi che compaiono nella poesia di Lee Masters, come succedeva nelle altre. Qui ne lascia però uno solo, ma diverso da quello che nomina Jones. Sostituisce Cooney Potter, un altro personaggio dell'Antologia che contrariamente a quanto fa Jones si ammazza di lavoro nei campi[24], con «gli altri» e al posto di Red-Head Sammy inserisce Jenny. La filosofia di vita che spinge entrambi è la stessa: ciò che per un lavoratore come Cooney Potter rappresenta una tragedia per i campi ed il raccolto, per "i suonatori" è motivo di felice ricordo, naturalmente lontano dal lavoro.

 

…Come fare a coltivare i miei quaranta acri,

non parliamo di aumentarli,

con la ridda di corni, fagotti e ottavini

che cornacchie e pettirossi mi agitavano in capo,

e il cigolio d'un mulino a vento - vi par poco?

mai misi mano all'aratro in vita mia

senza che ci si mettesse di mezzo qualcuno

e mi trascinasse via a un ballo o a un picnic. (Lee Masters).

 

…Sentivo la mia terra

Vibrare di suoni,

era il mio cuore,

e allora pechè coltivarla ancora,

come pensarla migliore. […]

 

Libertà l'ho vista svegliarsi

Ogni volta che ho suonato,

per un fruscìo di ragazze

a un ballo,

per un compagno ubriaco… (De André).

 

In questi versi si vede come i protagonisti stanno sempre sulle spine quando sono per i campi, poiché per loro tutti i rumori della natura sono suoni che li spingono verso lo strumento, vera espressione della loro anima. Sono questi i versi che forse più degli altri, esprimono  l'indole dei "suonatori". Tutto ciò è ancora più chiaro nella canzone di De André che sentendo i rumori della natura, pensando alla musica, si chiede perché restare ancora a coltivare la terra o addirittura a cercare di accrescerne i confini. Afferma quindi che la libertà non sta in quei campi, ma nella musica, quella suonata per una ragazza a un ballo o per un compagno ubriaco. A questo punto della canzone De André introduce dei versi che Lee Masters aveva invece messo quasi in apertura:

 

…E se la gente vede che sai suonare,

be', ti tocca suonare, per tutta la vita… (Lee Masters).

 

E poi se la gente sa,

e la gente lo sa che sai suonare,

suonare ti tocca

per tutta la vita

e ti piace lasciarti ascoltare… (De André).

 

I versi sono quasi identici, ma De André introduce quel «e ti piace lasciarti ascoltare», che manca in Lee Masters, proprio per sottolineare che per il suonatore l'essere trascinato e l'essere costretto a suonare in effetti non è un'imposizione ma un piacere, anche se questo piacere gli porterà conseguenze gravi per i campi e per il sostentamento.

 

…Finii coi miei quaranta acri;

finii col mio violino sgangherato -

e una risata rauca, e mille ricordi,

e neppure un rimpianto. (Lee Masters).

 

Finì con i campi alle ortiche,

finì con un flauto spezzato

e un ridere rauco

e ricordi tanti

e nemmeno un rimpianto. (De André).

 

Anche qui versi e contenuto sono quasi identici, cambia solo lo strumento, ma come ho già detto in precedenza è solo per esigenze metriche. Si chiude così l'album Non al denaro non all'amore né al cielo, con quello che è forse il personaggio nel quale più di ogni altro, si può riconoscere Fabrizio De André.

 

 

 

1.9 Princesa.

 

Con questo paragrafo mi accingo a chiudere lo studio su De André per passare a quello su Guccini. Ma prima di dedicarmi ai testi delle canzoni dell'ultimo album della carriera del grande cantautore genovese sarà bene ricordare le tappe intermedie più significative tra Non al denaro non all'amore né al cielo e Anime salve. Tali tappe sono quelle degli album Storia di un impiegato, del 1973, Fabrizio De André (Indiano), del 1981, Creuza de mä, del 1984 e Le nuvole del 1990.

Nell'album Storia di un impiegato De André fa una riflessione sul passato periodo della rivolta giovanile chiarendo come ogni sovvertimento porta non ad una società nuova, ma alla sostituzione di un potere con un altro. Ne viene fuori anche una affresco di quello che stava diventando l'Italia degli anni '70, degli anni di piombo e delle Brigate Rosse per intenderci. Questo era il tempo in cui la rivolta isolata dei "bombaroli", che volevano abbattere il potere, in effetti non fafaceva altro che rafforzarlo dandogli persino la possibilità di "perdonare" alla fine i "criminali", in un clima di pacificazione nazionale, e di affossare definitivamente qualsiasi prospettiva di cambiamento. In questo album De André parla della lotta di classe scegliendo l'immedesimazione in un impiegato, lo stesso che durante il sessantotto si preoccupa dei giovani standosene nel suo ufficio, o scambiando il «buon natale» e «grazie a Dio» e che dopo cinque anni da quei movimenti scopre che anche per lui qualcosa non va. Ma questa volta l'impiegato non si aggrega, pensa di poter vincere il Sistema con la lotta isolata e anarchica delle bombe «…ormai sono in ritardo per gli amici/ per l'odio potrei farcela da solo/ illuminando al tritolo/ chi ha la faccia e mostra solo il viso/ sempre gradevole, sempre impreciso…». Ma poi invece di far saltare il Parlamento sbaglia e distrugge il chiosco dei giornali spargendo inutilmente del sangue innocente «…c'è chi lo vide ridere/ davanti al Parlamento/ aspettando l'esplosione/ che provasse il suo talento,/ c'è chi lo vide piangere/ un torrente di vocali/ vedendo esplodere/ un chiosco di giornali…» e scopre il fallimento della propria individuale rivolta che è servita, come ho già detto, a rafforzare il potere che voleva invece abbattere. Un cammino, questo di De André, sempre rigorosamente fuori dal coro, da ogni classificazione politica o classista, come quello che lo vedrà ancora nel '78 criticare le organizzazioni legate al mondo operaio, cioè il sindacato, quando canterà in Coda di lupo «…capelli corti generale ci parlò all'università/ dei fratelli tute blu che seppellirono le asce/ ma non fumammo con lui non era venuto in pace/ e a un dio fatti il culo non credere mai…»[25]. Questo cammino non cambierà mai in De André, nemmeno quando in epoca di rampantismo imperante e edonismi reaganiani e tatcheriani lui parlerà di pellirosse d'America e di pastori della Sardegna, accostandone le simili esistenze con il sentimento che più gli è congeniale e che è il principio fondamentale della sua filosofia: quella solidarietà che significa sentire comune, essere partecipe del dolore degli altri come unica via per il bene e la pace di tutti gli uomini. Tra sardi e pellirosse c'è in comune la difesa della propria diversità, la vita irregolare di chi vive tra montagne o praterie, tra il cielo, i boschi e l'acqua di mari o torrenti. «…sopra ogni cisto da qui al mare c'è un po' dei miei capelli/ sopra ogni sughera il disegno di tutti i miei coltelli/ l'amore delle case l'amore bianco vestito/ io non l'ho mai saputo e non l'ho mai tradito/ Mio padre un falco mia madre un pagliaio stanno sulla collina…»[26]. Ma la diversità degli indiani d'America e dei pastori della Sardegna è soffocata nel sangue da un potere che assale e uccide i "diversi", anche se indifesi. Basti leggere alcuni versi dello stesso album, ma della canzone Fiume Sand Kreek:

 

Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura

Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura

Fu un generale di vent'anni

Occhi turchini e giacca uguale

Fu un generale di vent'anni

 

 

   C'è un dollaro d'argento sul fondo del Sand Creek.

 

I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte

E quella musica distante diventò sempre più forte

Chiusi gli occhi per tre volte

Mi ritrovai ancora li

Chiesi a mio nonno è solo un sogno

Mio nonno disse sì.

 

A volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek…

 

Quando poi questo genocidio, diventato ormai genocidio culturale, come aveva preannunciato un "maestro" di De André, Pasolini[27], si sarà compiuto pienamente nel nichilismo imperante degli anni ottanta, De André imboccherà con maggior forza la «direzione ostinata e contraria» che aveva caratterizzato i suoi personaggi componendo un album interamente in dialetto genovese: Creuza de mä. C’è qui una serie di incontri tra i fonemi dell’idioma genovese e i suoni degli strumenti etnici del bacino del Mediterraneo, da quelli andalusi a quelli macedoni, da quelli turchi a quelli arabi. Compare una serie di personaggi "diversi" e costretti ai bordi della società o alla morte. Quegli stessi personaggi che attraverso il dialetto rivendicano la loro condizione "altra" rispetto alla società omologata degli anni ’80. Sono quasi dei superstiti del genocidio compiuto dal potere e dai mezzi di comunicazione di massa. Basti vedere il caso dell’emarginato sociale costretto a riscuotere i crediti dei potenti, ma dotato di un’umanità tale da donare  ciò che può, di suo, a chi non può pagare. È il caso di ‘A pittima:

 

Cosa ci posso fare

Se non ho le braccia per fare il marinaio

Se in fondo alle braccia non ho le mani del muratore […]

E vado in giro a chiedere i soldi

A chi se li tiene e glieli hanno prestati

E gli domando timidamente […]

Io sono una pittima rispettata

E non andare in giro a raccontare

Che quando la vittima è uno straccione gli do’ del mio.

 

Oppure il caso di un bambino palestinese, il "diverso", che è ucciso in Libano da soldati, simbolo del potere, che, come in Fiume Sand Creek, attaccano e uccidono persone inermi. È il caso di Sidun:

 

Il mio bambino

il mio

labbra grasse al sole

di miele di miele […]

spremuto nell’afa umida

dell’estate dell’estate

e ora grumo di sangue orecchie

e denti di latte

e gli occhi dei soldati cani arrabbiati

con la schiuma alla bocca

cacciatori di agnelli […]

e nelle ferite il seme velenoso della deportazione

perché di nostro dalla pianura al modo

non possa più crescere albero né spiga né figlio…

 

In quest’album il dialetto è rivendicazione di identità e dignità storica oltre che naturalmente diversità. E il tema di Sidun (Sidone), è quello che compare tre volte in De André a sottolineare l’atrocità del potere che attacca, con soldati armati, poveri indifesi. L’abbiamo visto con l’attacco dei soldati americani al campo indiano, con il caso appena citato e lo vedremo nell’ultimo album di De André, con i carri armati che uccidono i rom di Jugoslavia, Polonia e Ungheria.

Dopo sei anni di pausa De André tornerà a scrivere, nel 1990, e lo farà con l’album Le nuvole, che significativamente ripropone il titolo di una delle più celebri commedie di Aristofane. Presenta dei personaggi senza identità che vivono un quotidiano senza futuro in quanto cercano piccoli tornaconti personali e seppelliscono qualsiasi forma di sentire. L’elemento che maggiormente colpisce è la differenza di tono tra il linguaggio di Aristofane e quello di De André. In Aristofane vi sono personaggi grotteschi e linguaggi scurrili:

 

…E nemmeno questo bravo giovane si sveglia la notte; ma spetezza tutto un groppo con cinque pellicce… (vv. 6-8, trad. R. Cantarella)[28].

 

…Arrostivo una trippa per i miei e avevo dimenticato di bucarla: e quella a gonfiarsi, e poi d’un tratto crepandosi mi smerdò sugli occhi e mi scottò la faccia… (vv. 409-411, trad. R. Cantarella)[29].

 

In De André un’ironia amara che ci lascia una rabbia impotente:

…Vanno

vengono

per una vera

mille sono finte

e si mettono lì tra noi e il cielo

per lasciarci soltanto una voglia di pioggia. (De André).

 

Ai tempi di Aristofane era possibile esprimere in Discorsi le contraddizioni del tempo, era possibile rincorrere l’avventura della conoscenza, anche se senza approdare a nulla, ma ai tempi di De André, alla fine degli anni ’80, non è più possibile. Ci saranno stati gli anni del craxismo, gli anni in cui quella generazione di “ribelli” si sarà ritirata a dirigere pubblicazioni vicine all’integralismo cattolico[30], gli anni in cui il "pentitismo" di questi "rivoluzionari" si trasformerà in rampatismo. Ci si pentirà di tutto: delle lotte estreme, degli eskimo, delle barricate e dell’amore libero, per indossare doppiopetti di grandi stilisti e frequentare masters alla Bocconi per aspiranti managers. Ma questi sono anche i tempi dell’AIDS e dei suicidi di massa di giovani con i gas di scarico delle auto dei papà. Il ’90, anno di Le nuvole, è il primo dopo la caduta del muro di Berlino, si grida che la storia è finita, il capitalismo ha vinto ed è l’unico potere capace di dare benessere, pace e libertà. Ma per De André un potere illusorio e vano, in quanto non dà ciò che promette, che ha la stessa consistenza delle nuvole, in una allegoria che ritroviamo identica in Aristofane che, per bocca di Socrate, identifica nelle nuvole le nuove divinità.

 

…Tu vuoi sapere esattamente la vera natura delle cose divine? […]

e venire a colloquio con le Nuvole, che sono le nostre divinità?… (vv. 246-250, trad. R. Cantarella)[31]

 

De André descrive in quest’album una "pace terrificante"[32]

 

…La domenica delle salme

nessuno si fece male

tutti a seguire il feretro

del defunto ideale

la domenica delle salme

si sentiva cantare

- quant’è bella giovinezza

non vogliamo più invecchiare - […]

la domenica delle salme

gli addetti alla nostalgia

accompagnarono tra i flauti

il cadavere di Utopia

la domenica delle salme

fu una domenica come tante

il giorno dopo c’erano i segni

di una pace terrificante… (La domenica delle salme).

 

che è in effetti una confusione senza limiti dove persino un uomo che si innamora di un’asina non desta stupore ma invidie e complicazioni burocratiche e paradossali[33]

 

…una brutta vecchia nascosta tra le frasche

piangendo e guardando diceva fra sé con le bave alla bocca

 

- Beata lei

mamma mia che bell’uomo

beata lei

giovane e bruno

beata lei

io muoio da sola […]

ma non riuscirono a sposarsi

l’asina e l’uomo

perché dai documenti risultarono

cugini primi… (Monti di Mola).

 

Le nuvole è quindi per De André l’album dell’«astio e il malcontento», del rifiuto del capitalismo come motore della storia, dell’autoesclusione. Qui troviamo un pezzo come Ottocento, ricalcato sul genere letterario della laude, nel quale però, rispetto a questa, si opera un rovescio: a recitarla non è una vittima, ma un ricco borghese che canta  le proprie meraviglie, cioè i suoi averi (una figlia da maritare, un figlio spregiudicato e una moglie esperta di anticaglie) che può mercificare in un mondo dove si può vendere o comprare qualsiasi cosa. Vi è rappresentata anche una tragedia, quella del figlio che muore annegato nel Naviglio sotto l’esaltante effetto di stupefacenti. Per cantarla De André prenderà spunto da Jacopone da Todi nella laude Pianto della Madonna. Ma mentre in Jacopone vi è bisogno intimo di candore, una travagliata necessità di porsi dinanzi alla Passione con animo semplice

 

…Figlio bianco e vermiglio,

figlio senza simiglio,

figlio, a chi m’appiglio?

Figlio pur m’hai lassato!…[34]

 

 in De André, anche se si riprende il primo verso citato

 

…Figlio figlio

povero figlio

eri bello bianco e vermiglio…

 

vi è una recriminazione «…unico sbaglio/ annegato come un coniglio/ per ferirmi, pugnalarmi nell’orgoglio/ a me a me/ che ti trattavo come un figlio» che lascia intravedere come vi sia l’abitudine a stabilire rapporti impostati sul modello del dare-avere che fanno perdere quel rapporto naturale che dovrebbe esserci tra padri e figli e che dovrebbe essere basato sugli affetti.

L’album successivo, Anime salve del 1996, è, invece, l’album della salvezza. Naturalmente a salvarsi sono quei personaggi che De André ha cantato in tutta la sua carriera, quei personaggi che hanno affrontato la vita come un viaggio, una sofferenza, che hanno rifiutato le astuzie, le ambizioni meschine della "maggioranza" e che affronteranno  la morte  da perdenti e da "poveri cristi". Il primo personaggio del genere nell’ultimo album di De André è Princesa[35], al secolo il brasiliano Fernando Farias De Albuquerque. Questo è un ragazzo brasiliano che fin da piccolo ha coltivato il sogno di una trasformazione in donna. Dalla campagna dell’infanzia, passata tra amori omosessuali clandestini, si trasferisce in città dove attraverso l’illegale intervento di una bombadeira[36], modifica il suo corpo con pillole di ormoni femminili e iniezioni di silicone. Da qui in poi la sua vita si svolgerà tra i marciapiedi del Brasile e quelli di Milano e Roma, dove concluderà la sua vita in prigione, a Rebibbia, malata di AIDS. Per De André la vita di Princesa, così sarà chiamata nella sua condizione di trans, è una rappresentazione teatrale più che una vita vera, è il viaggio mai finito di un passaggio, di una trans-formazione da uomo a donna, che vede Princesa bloccata nello stato intermedio che non fa di lei né più un uomo né una donna. Princesa è una creatura sospesa come tra sogno e realtà, tra l’amore per un solo uomo e la prostituzione. È sospesa tra queste condizioni come il lungomare di Bahia, dove lei si prostituiva,  lo è tra la terra e il mare. La storia di Princesa è liberamente tratta dall’omonimo romanzo di Fernanda Farias e Maurizio Jannelli. In questo romanzo, nelle primissime pagine è descritta l’infanzia del piccolo Fernando e i giochi innocenti che faceva insieme ai cuginetti, ma che sono già indizio delle sue inclinazioni naturali:

 

…Io ero la vacca. Genir il toro, Ivanildo il vitello. Camicette e pantaloncini sfilavano via in mezzo al bosco.[…] Invanildo il vitello, […] inumidiva e succhiava sotto la mia pancia. Oh, Ivanildo cerca la mammella! La mia piccola mammella. Inghiottita, mozzicata. Un solletico, un brivido di gioia. […] Invanildo rilanciava: Ehi, c’è la pecora e il montone…(Farias – Jannelli).

 

De André segue questo filo cronologico e lo sintetizza in versi che esprimono l’infanzia di Fernando, i giochi e le sue inclinazioni:

 

Sono la pecora sono la vacca

che agli animali si vuol giocare

sono la femmina camicia aperta

piccole tette da succhiare… (De André).

 

Parlando ancora dei ricordi della fanciullezza sono introdotti nel romanzo alcuni discorsi dei bambini nello scegliere i ruoli e discorsi che Fernando sentiva fare alla mamma con i parenti:

 

…Giocavo con Josefa il gioco della famigliola. Casetta, pentoline, e i ruoli familiari. Io, la madre. […] Oh, ma tu non sei femmina, tu sei maschio!

Fernandinho è meglio di una figlia femmina, si sveglia presto e mi porta caffè e tapioca dolce a letto…  (Farias – Jannelli).

 

…che Fernandino è come una figlia

mi porta a letto caffè e tapioca

e a ricordargli che è nato maschio

sarà l’istinto sarà la vita… (De André).

 

Qui è evidenziato come la madre di Fernando ancora non capisce le inclinazioni del figlio, vantando con i parenti le cose care che fa per lei. Mentre in De André vi è la falsa certezza che quelle inclinazioni saranno corrette naturalmente con l’età e la consapevolezza del proprio ruolo di maschio. Intanto il tempo passa e Fernando acquista sì sempre più consapevolezza dei ruoli, ma si riconosce sempre di più in quello femminile, tanto da immaginare un corpo diverso da quello che la natura gli ha assegnato:

 

…Davanti allo specchio grande, Cìcera mi sorprese e botte. Mi coprivo con la mano per vedermi come Aparecida anche tra le gambe. La mia fantasia, pancia tonda e fessura di bambina… (Farias - Jannelli).

 

… e io davanti allo specchio grande

mi paro gli occhi con le dita a immaginarmi

tra le gambe una minuscola fica… (De André).

 

A questo punto sono narrate nel romanzo altre esperienze significative del bambino fino alle prime esperienze con ragazzi più grandi e con adulti, fino a quando, ormai tutti consapevoli di ciò che sta accadendo, e dopo il fallimento del tentativo di arruolarlo, acconsentono di cedere alle sue richieste e mandarlo in città.

 

…Era il millenovecentottantuno e Adelaide, sorella cara, addolcì Alvaro e piegò Cìcera al mio desiderio. Abbandonare la campagna, vivere in città… (Farias - Jannelli).

 

…nel dormiveglia della corriera

lascio l’infanzia contadina

corro all’incanto dei desideri

vado a correggere la fortuna… (De André).

 

Da qui comincia quello che sia fisicamente che metaforicamente è il viaggio di Fernado. Comincia una nuova libertà, quella di poter essere donna, ma che sarà solo un sogno di libertà, un eterno sognare e viaggiare senza mai svegliarsi o approdare a nulla.

 

…mi diede l’indirizzo di una pensione […] – Faccio tutto: lavo la biancheria, cucino, pulisco le stanze […] organizzo venti pranzi  […] vuoi farti crescere i seni? Semplice, vendono gli ormoni in farmacia […] Il culo? Poi ti dirò, c’è Severina a bombadeira, poche iniezioni di silicone[…]  dentro il letto, occhi al soffitto, aspetto che ad albeggiare siano due seni di magia. Aspetto […] Ma tu sei maschio […] Vomitai una macchia rossa, mi contorsi dal dolore. Fernando mi resisteva, si rivoltava… (Farias - Jannelli).

 

…nella cucina della pensione

mescolo i sogni con gli ormoni

ad albeggiare sarà magia

saranno seni miracolosi

 

perché Fernanda è proprio una figlia

come una figlia vuol far l’amore

ma Fernandino resiste e vomita

e si contorce dal dolore… (De André).

 

Fernando ha incontrato nella pensione in cui lavora un uomo che le ha consigliato di prendere pastiglie di ormoni femminili e di farsi iniezioni di silicone. Nei passi appena citati abbiamo visto gli effetti delle pillole, ma da qui presto si passa alle iniezioni di silicone:

 

…novembre millenovecentottantacinque […] Severina, nella sua casa, mi bomba i fianchi con iniezioni di silicone liquido. Senza anestesia.

 

Dicembre millenovecentottantacinque, il prof. Vinicius, nella sua casa mi applica le protesi di silicone ai seni. Con anestesia. […] sono passati quindici anni ed ora, finalmente, eccomi qui che indosso fianchi esagerati, ampi e lenti come le anse del San Francisco. Mi danno passi al femminile… (Farias - Jannelli).

 

…e allora il bisturi per seni e fianchi

una vertigine di anestesia

finchè il mio corpo mi rassomigli

sui lungomare di Bahia… (De André).

 

A questo punto Princesa si sente donna, ma la sua vita è costretta lo stesso sui marciapiede nelle pensioni e nelle auto dove si prostituisce. Tra le sue braccia, le sue gambe e il suo sedere passano centinaia di uomini, dal Brasile a Madrid a Roma, come spettatori davanti ad un palcoscenico, fino ad un avvocato di Milano con il quale Princesa instaura una relazione stabile. Ma questo non è certo il finale lieto, poiché lui non la tratterà mai come una vera moglie e lei non lascerà mai definitivamente il marciapiede. Così se nel romanzo Princesa chiude il racconto con lei in prigione dopo aver accoltellato una donna, De André si ferma al “passeggiare recidivo” durante la sua storia con l’avvocato.

 

… sorriso tenero di verdefoglia

dai suoi capelli sfilo le dita

quando le macchine puntano i fari

sul palcoscenico della mia vita

 

dove tra ingorghi di desideri

alle mie natiche un maschio s’appende

nella mia carne tra le mie labbra

un uomo scivola l’altro si arrende

 

che Fernandino mi è morto in grembo

Fernanda è una bambola di seta

Sono le braci di un’unica stella

Che squilla di luce e di nome Princesa

 

A un avvocato di Milano

Ora Princesa regale il cuore

E un passeggiare recidivo

Nella penombra di un balcone. (De André).

 

Questo finale, in perfetta coerenza con la vita e la metamorfosi del protagonista, è una chiara rappresentazione dell’ambivalenza e della duplicità dell’essere.

 

1.10 Àlvaro Mutis (La saga di Maqroll il gabbiere) – De André (Smisurata preghiera).

 

Smisurata preghiera è il titolo dell’ultima canzone contenuta nell’album Anime salve. Nel titolo è insito il senso della canzone, che è quello di comporre una preghiera laica. La canzone è nettamente divisa in due parti, nella prima si canta il disprezzo per la maggioranza[37], la seconda è dedicata alla preghiera che De André rivolge al Signore affinché si ricordi e abbia cura dei "servi disobbedienti alle leggi del branco", che sono poi i personaggi che lui ha cantato in quaranta anni di carriera. Questa canzone sembra essere un vero e proprio commiato di De André alla la vita. Abbiamo detto che è l’ultima canzone dell’album, quindi anche l’ultima canzone della carriera dato che Anime salve è l’ultimo album di De André, ed è anche l’ultima prima di morire. Così se con La canzone di Marinella De André comincia a cantare quei personaggi che viaggiano in "direzione ostinata e contraria" (dobbiamo tener presente che Marinella nasce dalla vicenda di una prostituta morta in un fiume) con Smisurata preghiera recita per loro appunto una preghiera. I personaggi sono quelli di sempre, ma la passione per la lettura che ha accompagnato il cantautore genovese per tutta la vita, lo porta a cercarli nelle opere di degli autori più diversi, e, finalmente, nell’opera di Àlvaro Mutis. Lo stesso De André dichiara di essersi liberamente ispirato alla Saga di Maqroll il gabbiere. Ma questa volta non canta vicende particolari narrate da Maqroll, non personaggi in un momento della loro esistenza, dà per scontato che l’ascoltatore li conosca, sa a chi si riferisce quando parla di «servi disubbidienti», sa che cosa hanno fatto, qual è stata la loro esistenza. I personaggi di Mutis sono estremamente "vissuti": hanno girato il mondo nelle stive sporche e maleodoranti di navi da pesca partite dal Mediterraneo; hanno risalito con imbarcazioni di fortuna grandi fiumi del Sud America; hanno frequentato o gestito bordelli clandestini a Panama; hanno condiviso con grande naturalezza rapporti d’amore a tre e hanno tradito; hanno trafficato in armi; sofferto fame e povertà seguiti da guadagni facili e non sempre onesti senza mai dare importanza alle circostanze esterne; hanno vissuto nei posti più impensabili e hanno consumato quintali di brandy. La loro vita è contrassegnata da una certa drammaticità che li spinge a vivere ai confini della legalità, quando non al di là, quella legalità stabilita dalla legge degli uomini per il buon governo della società. Ma anche in questi casi non hanno ripensamenti o problemi morali. La morale è per loro qualcosa di malleabile che adattano alle circostanze del presente, e il presente è l’unica cosa che conta. La legge è per i personaggi di Mutis qualcosa che non occupa alcun istante della loro vita né ha troppo significato, che non ha nessun motivo per distrarli dai loro disegni. La vita per questi personaggi non è un viaggio, ma un naufragio senza fine. Ma vediamo qualche esempio di tutto ciò in qualche passo dei tre romanzi che costituiscono la saga.

 

…Cercando – Maqroll - alloggio a La Plata trovò una camera disponibile in casa di una donna cieca […] Per guadagnare spazio, la padrona aveva fatto costruire due camere che sporgevano sulla corrente del fiume e si reggevano su rotaie di ferrovia piantate obliquamente sulla sponda. La costruzione si manteneva in piedi per uno di quei miracoli d’equilibrio ottenuti in queste terre da coloro che sanno sfruttare tutte le possibilità del grosso bambù […] Non passò molto tempo che – la padrona – offrisse al suo ospite piccole somme in prestito per coprire le spese più immediate e alcuni conti che spesso rimanevano in sospeso con lo stesso Hakim e all’osteria. Gli amori passeggeri del Gabbiere erano la causa delle prime e l’incalzante affanno do oblio che lo assediava a periodi era la ragione dei secondi. All’osteria, in effetti, era solito ricorrere pensando che il brandy gli avrebbe reso più sopportabili gli attacchi di astio, causati, in buona parte, dalla constatazione del passare degli anni sulle sue stanche ossa di nomade irredento…[38]

 

…E io, che sono un uomo di mare, per il quale i porti sono stati appena un transitorio pretesto di amori effimeri e di risse da bordello…[39]

 

…Vengono anche, una volta all’anno, le donne dei seminatori di canna della riva opposta. Lavano i vestiti nella corrente e sbattono gli abiti contro le pietre. Così mi accorgo della loro presenza. Con alcune di loro che sono salite sino alla miniera ho avuto delle relazioni. Sono stati incontri frettolosi e anonimi dove il piacere è stato meno presente della necessità di sentire un altro corpo contro la mia pelle e ingannare, sia pure con un fugace contatto, la solitudine che mi consuma…[40]

 

…Nel provare che la prostituzione sia tanto convezionale quanto il matrimonio, riusciamo solo a confermare che il cammino di costante vagabondaggio scelto da noi e la volontà di non rifiutare mai ciò che la vita, o il destino, o il caso, come vuoi chiamarlo, ci offrono sul percorso, risulta, almeno, efficace per impedirci di cadere nel fastidio di una accettazione rassegnata…[41]

 

…Questo spingeva coloro che lo frequentavano da anni a provare per lui una tiepida indulgenza che, per lo più, non sfociava mai in un’amicizia profonda e duratura. Portava impresso in qualche parte del suo essere quel marchio che distingue i vinti e che finisce per isolarli irrimediabilmente dai loro simili…[42]

 

…Sono il disordinato frequentatore delle più nascoste rotte, dei più segreti approdi. Della loro inutilità e della loro ignota ubicazione si nutrono i miei giorni.

Conserva questo ciotolo levigato. Nell’ora della tua morte potrai accarezzarlo nel palmo della mano e scacciare così la presenza dei tuoi deplorevoli errori, la cui somma svuota di ogni possibile senso la tua vana esistenza. […]

Segui le navi. Segui le rotte che solcano le logore e tristi imbarcazioni. Non ti fermare. Evita persino il più umile ancoraggio. Risali i fiumi. Discendi i fiumi. Confonditi nelle piogge che inondano le pianure. Rifiuta ogni sponda.

Nota quanto abbandono regna in questi luoghi. Così i giorni della mia vita. Non fu altro. Ormai non potrà esserlo.

Le donne non mentono mai. Dalle più segrete intimità del loro corpo scaturisce sempre la verità. Accade che ci sia stato dato di decifrarla con parsimonia implacabile. Ci sono molti che  mai lo ottengono e muoiono nella cecità senza scampo dei loro sensi.

Esistono due metalli che allungano la vita e concedono, a volte la felicità. Non sono l’oro, né l’argento, né cosa che gli somigli. So solo che esistono.

Io avrei seguito le carovane. Sarei morto sotterrato dai cammellieri, coperto dallo sterco delle loro greggi, sotto l’alto cielo degli altipiani. Meglio, sarebbe stato molto meglio. Il resto, in verità, non è stato interessante…[43]

 

Avendo a che fare con romanzi, quando non si tratta di pezzi di questi messi in versi da De André, risulta difficile trovare l’eco più appropriato. Ma dai pezzi citati si comprende quale sia la vita e la filosofia di questi personaggi, trovano conferma le considerazioni fatte poc’anzi. Da ciò De André parte per rivolgere al Signore la preghiera di ricordare questi uomini così "sbandati". Di farlo «…come una svista/ come un’anomalia/ come una distrazione/ come un dovere…».

 

…Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria

col suo marchio speciale di speciale disperazione

e tra il vomito dei respiri muove gli ultimi passi

per consegnare alla morte una goccia di splendore,

di umanità, di verità […]

 

ricorda Signore questi servi disobbedienti

alle leggi del branco

non dimenticare il loro volto

che dopo tanto sbandare

è appena giusto che la fortuna li aiuti

 

come una svista

come un’anomalia

come una distrazione

come un dovere.



[1]G. BALDAZZI, op. cit., p. 174.

[2] Cfr. E. D. MARINO, intervista citata.

[3] Cfr. R. GIUFFRIDA e B. BIGONI, Canzoni corsare, in Fabrizio De André. Accordi eretici, a c. di R. Giuffrida e B. Bigoni, EuresisEdizioni, Milano, 1997, pp. 21-24.

[4] M. LUZZATO FEGIZ, Testimonianze, in F. De André, LA CATTIVA STRADA, di D. FASOLI, Edizioni Associate, Palermo, 1995, p.12.

[5] Cfr. P. JACHIA, op. cit., p. 95.

[6] Per C. Angiolieri Cfr. Storia della letteratura italiana, a c. di E. Cecchi e N. Sapegno, vol. I, Garzanti, Milano, 1965.

[7] Cfr. F. DE ANDRE, Smisurata preghiera, in Anime salve, 1996.

[8] Cfr. Cecco Angiolieri, op. cit., pp.699-708.

[9] P. JACHIA, op. cit., p. 95.

[10] Cfr. D. FASOLI, op. cit., p. 99.

[11] Per i testi di F. Villon vedi: F. VILLON LASCITO TESTAMENTO E  POESIE DIVERSE, a c. di M. Liborio, Rizzoli, Milano, 1990.

[12] F. DE ANDRE', prefazione a François Villon, a c. di L. De Nardis, Feltrinelli, Milano, 1996, pp. II-IV.

[13] Stralci di varie interviste riportati su Televideo RAI, 12 gennaio 1999.

[14] F. DE ANDRE', Si chiamava Gesù, in Volume I, 1967.

[15] Cfr. I Vangeli apocrifi, a cura di M. Craveri, Einaudi, Torino, 1998 1 edizione 1969, Einaudi, Torino, pp. XXIX-XXX.

[16] Per i testi di Giacomo cfr. I Vangeli apocrifi, a c. di M. Craveri, op. cit..

[17] Cfr. Smisurata preghiera, in Anime salve, F. DE ANDRE', 1996.

[18] F. DE ANDRE', Un giudice, in Non all’amore non al denaro né al cielo, 1971.

[19] Cfr. l’intervista a De André fatta da F. PIVANO in D. FASOLI, op. cit., p.139.

[20] Ibidem, p. 143.

[21] Cfr. F. DE ANDRE', La città vecchia, in Tutto Fabrizio De André (1966).

[22] F. De André, Intervista a De André, fatta da F. Pivano, in D. FASOLI, op. cit., p. 143.

[23] Ibidem.

[24] Cfr. la poesia Cooney Potter, in E. L. MASTERS, Antologia di Spoon River, a cura di V. Papetti e A. Rossatti, Rizzoli, Milano, 1986, pp. 160-161.

[25] Riferimento alla vicenda degli scontri avvenuti all’Università “La Sapienza” di Roma in occasione del comizio del sindacalista Luciano Lama nel 1977.

[26] F. DE ANDRE', Canto del servo pastore, in Fabrizio De André (Indiano), 1981.

[27] «E’ in corso nel nostro Paese […] una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione […] finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale per due terzi almeno degli italiani». P. P. PASOLINI, Il genocidio, in Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1991, p. 229.

[28] ARISTOFANE, Le nuvole, in Letteraturra greca, a c. di G. Carotenuto, Canova, Treviso, 1989, p. 335.

[29]Ibidem, p. 349.

[30] Vedi la vicenda di P. Liguori, ex figura di primo piano di Lotta continua che passò a dirigere il settimanale cattolico Il Sabato.

[31]ARISTOFANE, Le nuvole, in op. cit., p. 344.

[32] Cfr. F. DE ANDRE', La domenica delle salme, in Le nuvole, 1990.

[33] Cfr. F. DE ANDRE',  Monti di Mola, in Le nuvole, 1990.

[34] Cfr. Storia della letteratura italiana, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, vol. I, op. cit., pp. 676-680.

[35] F. FARIAS DE ALBUQUEQUE e M. JANNELLI, Princesa, Ed. Sensibili alle foglie, Roma, 1995.

[36] Bombadeira: donna alla quale si rivolgono i transessuali per modificare il corpo con iniezioni di silicone, ma che non ha nessuna specializzazione o titolo di studio che la abiliti a tale attività.

[37] Vedi il concetto di maggioranza secondo De André riportato a p. 22.

[38] À. MUTIS, Un bel morir, Einaudi, Torino, 1997, pp. 3-11.

[39] À. MUTIS, La neve dell’ammiraglio, Einaudi, Torino, 1996, p. 117.

[40] Ibidem, p. 121.

[41] À. MUTIS, Ilona arriva con la pioggia, Einaudi, Torino, 1996, p. 95.

[42] Ibidem p. 10.

[43] À. MUTIS, La neve dell’ammiraglio, op. cit., pp.125-126.